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La centralità acquisita dal paesaggio e dalle pratiche cui il termine allude è confermata ormai quasi quotidianamente, così come la forza dei saperi e delle professioni che vi si riferiscono, testimoniata dai generi letterari cui danno corpo. Dopo i dizionari dei paesaggisti, siamo ora giunti alle autobiografie, come accade ogni volta che una professione conquista una posizione centrale. Questa di Gilles Clément vuole raccontare come è nato l'interesse dell'autore per il mondo vegetale, interesse che lo porterà a coniare nozioni di successo quali "giardino planetario", "terzo paesaggio", "giardino in movimento", che alludono alla realizzazione di luoghi in cui la vegetazione invade spazi residuali e privi di funzione, che si mostrano cruciali, colonizzati liberamente dalla vegetazione. Il termine "giardino" capovolge il suo significato, con buona pace della metafora proustiana, nella quale le aiuole ben ordinate si offrono a una visibilità completa per chi sta al di qua della cancellata della conoscenza. Le condizioni del nostro tempo non si palesano in forma diretta, né si offrono a una conoscenza in forma completa. Clément, senza toccare la questione, la rende esplicita. Se c'è una figura chiave, qui, è quella della métis: metafora di un'astuzia lontana dalla razionalità di tanta parte del pensiero moderno, ben rappresentata (da sempre) dalle piante che vegetano in condizioni ostili, compaiono senza preavviso, crescono inaspettatamente e poi muoiono in un luogo per rinascere a pochi metri. L'agire paesaggista (di cui il libro ripercorre, in modo compiaciuto, il formarsi a partire dalle prime osservazione di Clément bambino) è un andare con, non contro, la natura, assecondare, osservare e intervenire meno possibile. Il successo è travolgente. Ma siamo certi di voler buttare definitivamente a mare ciò che Weber chiamava il "disincantamento della natura": l'intenzione profonda di demitizzare la natura e di offrirla all'iniziativa e alla responsabilità umane? Cristina Bianchetti
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