La scoperta della scrittura come unico mezzo capace di rivalutare l'esistenza, colmandone il vuoto e dando senso ai gesti quotidiani, segna l'inizio della carriera poetica di Vittorio Alfieri, come testimonia il suo diario giovanile e più tardi (in forma di conclusivo bilancio) la Vita scritta da esso. L'elaborazione di un nuovo stile tragico, che rinnovi in Italia un genere privo di grandi modelli nel Settecento, corrisponde perfettamente a questa concentratissima ricerca di autenticità ed energia, che ruota intorno al tema della tirannide e della libertà (in chiave più passionale che politica) e a quello parallelo della "demistificazione dell'ipocrisia", ovvero delle maschere che l'eroe tragico deve strappar via per rivelare la verità occultata dal tiranno. "Ostinato programmatore", Alfieri pubblica a Parigi nel 1789 le dodici tragedie in endecasillabi sciolti a cui affida una volta per tutte la sua fama, ciascuna con pochi personaggi e di una "estrema semplicità di linee". "Precocemente postumo a sé stesso", nel 1790 inizia a comporre l'autobiografica Vita dove tono tragico e tono comico si uniscono a comporre un provocatorio ritratto sotto il segno del "disinganno": si prepara così la transizione dello scrittore ad altri generi letterari, le satire, il Misogallo e soprattutto le commedie, dove il rifiuto della volgarità e della falsità del mondo è totale, al punto da non affidare più alla letteratura l'incarico della denuncia. Non a caso, verso la fine della sua esistenza, Alfieri ricorreva raramente alla parola: "non parlava mai né coi suoi famigli, né col Segretario, ma si faceva intendere a cenni". Questo amaro mutismo chiude perfettamente e disperatamente il cerchio di un intenso sperimentalismo poetico, che la monografia di Di Benedetto e Perdichizzi documenta in ogni sua fase con elegante chiarezza. Rinaldo Rinaldi
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