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La scrittura di Vivian Lamarque in un milanese urbano, garbato, ha le stesse tonalità sospese, leggere, delicatamente cantilenanti che troviamo in molte delle sue poesie in lingua: “Milàn brütta bèlla / lassem andà / ‘l me amur ‘l m’ama no / ‘l me amur m’ama no”, “adèss l’è grand / ‘l gh’à ‘lso de fa / i lusert de cercà / i bus de scavà / ‘l pustin de baià…”. Sono poesie che l’autrice ha scritto molto tempo fa, “in anni oscuri” in cui ha sofferto e fatto soffrire, come scrive in esergo. Allora il dialetto diventa la lingua che accoglie e accarezza, benché non sia quella nativa della poetessa, nata in Trentino e poi adottata da una coppia milanese: ma è comunque una lingua respirata nell’aria degli anni ’50, tra la gente in strada, nei negozi, nei cortili dei giochi. Come giustamente commenta Cucchi “è un ulteriore tentativo naturale di portarsi a una condizione primaria di innocenza”: lingua del sogno, della fiaba, della memoria e dell’innamoramento. Le immagini che si rincorrono nelle pagine risultano commoventi nella loro discrezione, mai retoriche o abusate. Sia quando descrivono l’attesa di una lettera con un’intestazione affettuosa, ma che non si apre temendo un addio, o l’emozione di una telefonata a cui per troppa gioia non si sa rispondere, o la richiesta al papà di poter fare un giro in bicicletta. Il libro è omaggio alla virtù ormai tanto trascurata, quando non vilipesa, della gentilezza: nei rapporti con le persone, con gli animali, con la città, il cielo e le nuvole. Gentilezza che è anche comprensione, indulgenza, fine attenzione ai sentimenti altrui, e che fa sorridere il cuore, gli occhi e persino gli occhiali: “Come me pias a mi la gentilèssa / come me pias diventi matta / duu parulitt al moment giust / 'n attenzion minimissima de nient / …me riden el coeur i ceucc / e financa i occiaj”. Vengono in mente, leggendo queste poesie esili e cortesi, due bei versi di Sandro Penna: “La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta”.
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