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Prendendo spunto da una citazione degli studiosi Schmid e de Graff - secondo i quali il terrorismo non è altro che una strategia di comunicazione violenta -, l’autore si sforza di capire da quale momento in poi il giornalista e qualsiasi operatore della comunicazione fa da sponda a chi persegue un’attività losca e fomenta solitamente l’odio tra i popoli. E, al contrario, attraverso l’analisi di numerosi interventi di opinione comparsi su pubblicazioni specializzate e sulla stampa, cerca di comprendere a che punto chi fa informazione deve accorgersi di essere diventato strumento e tagliare ogni sorta di propaganda a chi si nasconde e utilizza metodi illeciti. In questo ambito, secondo l’autore, si misura efficacemente «il valore della risposta professionale a cui sono chiamati tutti gli operatori della comunicazione». «Per cui, ci siamo anche noi chiesti se fosse giusto, di fronte alle richieste di pubblicità occulta fatte dai terroristi, trasmettere od oscurare. Alla proposta stravagante e radicale – ma irrealizzabile - di McLuhan, di determinare un blackout totale della copertura informativa sui terroristi (1978), abbiamo fatto seguire una via intermedia che prendesse in considerazione la responsabilità del giornalista, chiamato a dare conto delle proprie azioni, a discernere circa il proprio operato, sforzandosi di trovare una sintesi tra diritto all’informazione, esigenze politiche e fattori contestuali», scrive Tridente.
Fino a che punto il giornalista deve prestare voce a chi fomenta l’odio? La domanda – in questi anni marcati dall’emergenza del terrorismo internazionale – è ineludibile per i professionisti dell’informazione. Ma riguarda fondamentalmente tutti, comunicatori e fruitori della comunicazione, giornalisti e semplici cittadini che ogni giorno sono sommersi tramite i TG, le radio, Internet e le colonne dei giornali da un’apparentemente inesauribile marea di atrocità e violenze assortite, commesse da gruppi di «resistenti», «ribelli», «guerriglieri» che accomuniamo sotto la definizione complessiva di «terroristi». Ebbene: è giusto dare risalto alle loro tragiche imprese? Non significa, in ultima analisi, aiutarli nella loro propaganda e quindi fare il loro gioco? A chiederselo è un giovane studioso, Giovanni Tridente, autore del saggio di fresca pubblicazione «Attacco all’informazione. Un approccio etico alla copertura mediatica del terrorismo» ( ed. Apollinare Studi, 142 pp., Roma 2006, prezzo: 13 euro), nel quale cerca di affrontare il tema del terrorismo con gli strumenti dell’etica della comunicazione. In tempo di terrorismo è bene che il giornalista si affidi innanzitutto alla propria coscienza, tenga bene a mente il concetto di persona e i valori umani e compia un sistematico esercizio delle virtù operando con correttezza e responsabilità. È questa, in sintesi, la conclusione a cui giunge Giovanni Tridente nel suo studio. Egli scrive, infatti, che «un'etica della comunicazione si può fondare soltanto sul concetto di persona e sui valori umani. E qualsiasi attività informativa deve fare proprio l’esercizio della correttezza e della responsabilità, soprattutto in tempo di terrorismo”. “Correttezza e responsabilità – aggiunge - sono due pilastri professionali che trovano la loro ragion d’essere nell’esercizio delle virtù e il loro punto di riferimento nella coscienza personale di ciascuno».
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