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Ho spavento verso le antologie poetiche. La raccolta Crocetti del 2011 copre la produzione poetica di Tranströmer dal 1954 (17 Dikter) al 1996 (Sorgegondolen), quarantadue anni di poesia in poco più di cinquanta componimenti, cinquantadue se ho contato bene. Philippe Daverio, in una delle interviste di repertorio mandate in onda quando era appena morto, diceva all’incirca: in un museo, in una mostra, non si dovrebbe andare per vedere tutti i quadri, percorrendolo a passo di corsa, per non rischiare di perdersene qualcuno prima della chiusura o, che so, per evitarsi un dolore ai piedi. Ci si va per un quadro, al massimo per due quadri, e davanti a quei quadri si resta, li si guarda, se ne fa la conoscenza. Aggiungo io: per conoscere qualcuno non basta stringergli la mano, se stringi la mano a una folla di persone non è che quella folla di persone puoi dire di averla conosciuta. Stringi la mano, ti presenti a uno o due persone, cerchi di appartarti, le guardi e ti fai guardare, parli e le ascolti. Vale a dire: si sta davanti a un quadro come davanti a una poesia. Come posizione vale tantissimo per le poesie di Tranströmer. Non si entra in una antologia poetica, come neppure in una raccolta poetica completa, per leggere le poesie una dietro l’altra, neanche fosse: tolto il dente tolto il dolore. Si sta con una poesia per un paio d’ore, ce la si fa bastare per un giorno, per leggerne un’altra si può aspettare il giorno dopo o anche più di uno. Si impara a aspettare e a desiderare. A stare, e a pensare.
La poesia di Tranströmer esprime tutta la sua originalità proprio nei punti enucleati nell’ interessante prefazione. Il fantastico e l’immaginifico, in primo luogo, resi in metafore fulminanti e condensate, che apparentano il mondo fisico alle sensazioni interiori, siano esse sogni, incubi, o visioni illuminanti: «Pezzi di ghiaccio: gotico capovolto. / Mandria astratta, mammelle di vetro», «Un albero vaga nella pioggia, / ci passa in fretta davanti nel grigio scrosciante. / Ha un affare da sbrigare. Prende vita dalla pioggia / come un merlo in un frutteto». L’eredità degli studi psicanalitici si avverte in un reiterato interesse per lo scandaglio dell’inconscio, per l’attività onirica, per il rimosso che affiora disturbante: «È un travestimento. / Il profondo che prova e scarta diverse maschere». La fascinazione musicale ritorna nelle tonalità modulate in accordi strumentali, e in riferimenti concreti all’esistenza di compositori classici: «Mi porta la mia ombra, / come la sua nera custodia / un violino». Lo stile in cui si esprimono i versi ‒ essenziali, contratti e lucidi ‒ di Tranströmer è paratattico, fatto di brevi frasi coordinate, in cui però ogni termine assume una pregnanza di significato tutta da esplorare, nella ricerca di significati plurimi, di nessi logici non immediatamente intuibili: una poesia non facile, quindi, e mai banale, che richiede al lettore un’adesione attenta e partecipe, anche perché non ama giocare con tranelli e trucchi linguistici, con sperimentalismi fine a sé stessi. Il silenzio, da cui nasce la sua scrittura, è base imprescindibile per mettere in luce il miracolo da cui nasce la parola. Proprio ad essa il poeta deve il massimo rispetto, e suprema riconoscenza. Soprattutto se avvicina al mistero dell’esistenza, al momento tragico della morte, come nell’ultima raccolta “La gondola a lutto”, composta dopo l’ictus che ridusse il poeta alla paralisi e al mutismo: «Il sole è basso. / Ombre nostre giganti. / Sarà tutt’ombra».
Una bella scoperta. da leggere.
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