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Una buona lettura, scorrevole per nulla impegnativa, a volte un po' ironica a volte no, mi aspettavo qualcosa di piu' ma sono rimasta comunque soddisfatta.
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Già dall'immagine di copertina, Sono figlia dell'Olocausto trapela un'intensità non comune e una relazione armonica fra parola e disegno, tipica del graphic novel. Vi si vede una bambina che ha in braccio una bambola, uno sguardo triste e due ombre alle spalle: sono quelle dei suoi genitori.
La voce narrante, quella dell'autrice, ha molti silenzi, non detti o detti a metà che l'hanno sempre tenuta a distanza proprio dai suoi genitori. E questo perché loro hanno un pesantissimo conto aperto con un passato che non passa, con il passato per eccellenza del XX secolo. Un passato che ha una collocazione geografica e simbolica molto precisa: Auschwitz, dove entrambi i genitori, ebrei originari delle cittadine di Miechow e Bedzin in Polonia, furono deportati e si conobbero.
Ma Auschwitz è il terribile passato che non passa anche per la piccola narratrice, che fin dai primi anni di vita impara a leggere tra le righe il dolore dei genitori, dei nonni, degli zii, degli amici di famiglia. Non fa domande e inizia a dar forma a quei silenzi prima attraverso i suoi disegni, poi attraverso la letteratura dei testimoni e degli storici: da Primo Levi ad Hanna Arendt, da Paul Celan a Elie Wisiel.
Perché parlare con i parenti di quello che è successo laggiù è ancora presto, forse non sarà mai il tempo giusto. E poi da anni ormai vivono tutti in Canada, dove la quotidianità è spesso così normale da lasciar spazio a debolezze e vizi del tutto ordinari: le liti fra i genitori, il gioco d'azzardo che tiene lontano il padre dalla famiglia, l'irrispettosa vivacità dei bambini di fronte ai nonni stanchi e assenti. Il Canada è il mondo nuovo e la terra delle possibilità, ma porta anche il nome (Kanada) del reparto del campo di Birkenau dove la mamma fu costretta a lavorare. Era stato chiamato così per via dell'abbondanza che vi regnava, infatti, lì venivano radunati tutti gli oggetti, quelli di valore come quelli di nessuna importanza, confiscati ai deportati, prossimi alla morte.
La ragazzina, e poi l'adolescente, non si accontenta della superficie delle informazioni raccolte. Si butta allora in tutto ciò che parla dell'Olocausto al posto della sua famiglia: siano i libri, i film, le testimonianze, i trattati di psicologia. Un'immersione totale e irrinunciabile, che diventa la sua ossessione, il suo pensiero fisso. E se questo, da una parte, le fa scorgere la bellezza dei rimandi di parole, espressioni, concetti che sembrano rincorrersi da un autore a un altro fino a formare una mappa lessicale e ideale della memoria, la avvicina anche al fascino ambiguo del vittimismo. La pone all'interno di quel meccanismo che ti fa pensare di essere migliore degli altri, di avere diritto a più attenzione, più amicizia, più amore e, in contesti diversi, a più potere e a qualche privilegio, perché hai subito una perdita irreparabile. L'autrice scava dentro queste contraddizioni, le affronta senza ritrarsi davanti alla loro sgradevolezza, ma si fa sorreggere anche dall'ironia e dalla levità nel raccontare le immense riunioni di familiari e amici per le ricorrenze ebraiche, dai bar mitzvà ai matrimoni. Non risparmia allusioni irriverenti alle improbabili acconciature delle signore, agli abiti impeccabili degli uomini, alle quantità incalcolabili di cibo e portate, anche se sa che dietro a questo tripudio formale si cela il bisogno di sostenersi a vicenda, di allontanare i terribili ricordi delle tremende privazioni, a volte a costo di sorprendenti ostilità verso chi non è parte del gruppo.
Un gruppo che si caratterizza anche per l'uso di espressioni importate dall'Europa orientale, espressioni in yiddish, l'idioma degli ebrei askenaziti. Una lingua che si mostra morente e insieme sopravvissuta a se stessa, ancora vivissima nella sua capacità di adattarsi e infiltrarsi nella lingua inglese, dandole un sapore dolce e amaro insieme. Così in frasi quotidiane entrano parole lontane come epel, mela, eppes, qualcosa, veltete, un mondo dentro un mondo, e si fanno strada espressioni curiose come il nulla, che non riguarda la religione o la metafisica, ma è il nome di un dolce di pasta gonfia, zuccherato in superficie. Parole e frasi brevi spesso racchiudono significati complessi, difficilmente enunciabili in altre lingue, ben più sintetiche. Come oyf simchas, solo due suoni, che si possono tradurre con un giro di parole: che ci si possa incontrare in occasioni felici. Un modo di dire consueto nelle feste o negli incontri informali, ma quale effetto produce se detto dal padre dell'autrice, disegnato con sguardo mesto davanti ai cancelli di Auschwitz, mentre pronuncia un discorso ufficiale.
Nel corso degli anni qualcosa trapela della storia dei familiari, il padre che va a commemorare le vittime poco dopo la liberazione, la madre che vive le ristrettezze del ghetto, mentre i nonni materni mantengono un riserbo ostinato e inviolabile, che li allontana dalla nipote e da qualunque sentimento di tenerezza. Certo, a loro sfavore gioca l'esigente intransigenza tipica dei bambini e degli adolescenti, ma la situazione rivela anche come la memoria possa rimanere inchiodata in sé se non trova una corrispondenza adeguata tra ascolto e racconto. E, infatti, la rivelazione completa della storia della madre non avviene spontaneamente, ma attraverso un'intervista registrata nel 1995 per l'archivio dell'Holocaust Project, promosso dalla Shoah Foundation di Stieven Spielberg. La figlia la ascolta e la riporta integralmente con parole sue, come si direbbe in una scuola. Registrazione rigorosa dei fatti e condivisione empatica camminano di pari passo, restituendo una testimonianza lucida e insieme terribilmente partecipe.
È oggi vivo più che mai il dibattito, avviato da alcuni anni, sull'esigenza di tramandare la memoria della Shoah. Il libro di Bernice Eisenstein si inserisce perfettamente all'interno di questa discussione parimenti condivisa dagli storici e dai diretti interessati, fornendo un punto di vista del tutto inedito. I figli e i nipoti delle vittime e dei sopravvissuti, sempre che intendano assumersene l'onere, sono gli interlocutori privilegiati per tramandare la pesantezza di un dolore che non solo ha accompagnato le vite di chi quel dolore ha subito in prima persona, ma anche di chi è venuto dopo. Attraverso svariate e differenti modalità narrative possono evitare l'incrinatura, costantemente in agguato, fra significato e significanti, che rischiano di riempirsi di volta in volta di fredda distanza storica o di non senso, di retorica o di opportunismi, non meno che di morbosa e insana attenzione.
E poi i figli e i nipoti hanno dalla loro parte la vita che continua, letteralmente, in loro. Il libro, non a caso, si conclude con la festa per il bris, la circoncisione rituale, del figlio dell'autrice, cui viene dato il nome del nonno, morto pochi mesi prima della nascita. Nell'ultima pagina il gruppo degli ospiti è raccolto intorno a una citazione di Paul Celan: "Tu scavi e io scavo: e al dito si ridesta in noi l'anello". L'anello rimanda alla fede nuziale che la mamma dell'autrice trovò in uno dei cappotti che doveva accatastare a Birkenau. Fu il suo dono di nozze al marito, che la portò fino alla morte. Ma, senza tradire le intenzioni di Bernice Eisenstein, forse, si potrebbe chiosare il libro anche con altre parole: "Oyf simchas, che ci possa incontrare in occasioni felici, nonostante tutte le indicibili occasioni passate". Donatella Sasso
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