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Il potere di tutti - Aldo Capitini - copertina

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1999
1 gennaio 1999
512 p.
9788877153777

Voce della critica


recensioni di d'Orsi, A. L'Indice del 2000, n. 04

"Se vedo continuamente fatti che spengono la vita di esseri viventi, tanto che non mi rassegno e contrasto e protesto, e mi appassiono perché non sia sempre così, e la compresenza vinca; dunque i fatti non abbiano più questo potere di annientare parti della realtà di tutti, e siano invece al servizio della libertà e dello sviluppo di tutti come singoli. L'apertura agli esseri viventi porta a questa apertura al domani, in cui la realtà di tutti sia una realtà liberata".
È sufficiente questo brano, tratto dalle pagine iniziali dell'opera, per cogliere insieme l'originalità e la tranquilla modestia, per così dire, di un pensatore e di uno scrittore sul quale grava una sorta di maledizione storiografica ed editoriale, dopo che - finché era in vita - un sostanziale silenzio pubblico aveva perlopiù accolto la sua opera di filosofo, di intellettuale, di organizzatore. La recente riedizione del libro postumo Il potere di tutti, nell'ambito delle celebrazioni del centenario della nascita (avvenuta il 23 dicembre 1899 in quella Perugia che fu davvero il suo piccolo palcoscenico), accanto ad alcune altre iniziative - seminari, convegni - offre l'occasione per fare il punto. Un punto davvero poco esaltante, sul piano tanto dei testi quanto degli studi.
Incominciando dai primi, non posso non ricordare come durante la sua esistenza Capitini non ebbe vita facile con gli editori, trovando anzi spesso gravi difficoltà a pubblicare i propri scritti, come mostrano ad abundantiam i suoi carteggi. Il potere di tutti è una raccolta di testi. L'incompiuto Omnicrazia e scritti minori, tra cui le affascinanti Lettere di religione: testi dell'ultima stagione di Capitini - docente apertissimo e "anomalo" (anche in Accademia non ebbe vita facile), ma rigoroso -, che si incrociano, in un'empatia che non esclude fermo dissenso sulle manifestazioni di intolleranza, e spesso di autentica prepotenza, con le ragioni della contestazione studentesca. Ma non si creda che si tratti di testi a rimorchio della contestazione: l'ideale omnicratico (come intitola Alberto De Sanctis un suo saggetto di qualche tempo fa, qui riedito) viene di lontano e porta in qualche modo a conclusione molte delle sperimentazioni con la verità della politica messe in atto dal perugino fin dai primi anni trenta.
Un merito aggiuntivo di quest'opera postuma, nel 1969 come nella edizione odierna, è l'introduzione di Bobbio, certamente una delle cose migliori scritte su Capitini: e qui vorrei già passare dai testi agli studi. Ma debbo tuttavia soffermarmi ancora un momento sul capitolo testi, davvero spinoso. Infatti le difficoltà editoriali riscontrate da Capitini in vita non sono cessate nemmeno post mortem. Si sono invero registrate, a cominciare dall'opera in questione, alcune edizioni, qualche scelta antologica (per tutte: Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, 1977, grossa e farraginosa) e anche talune ristampe: ma si trattava di iniziative sporadiche, casuali, quasi iniziatiche, e, per di più, prive di apparati critico-filologici, storici, biobibliografici, tanto più necessari davanti a un personaggio poco noto e a un autore certo non facile. Finalmente, negli anni novanta, sotto gli auspici della Fondazione Aldo Capitini di Perugia, si diede inizio a quella che si annunciava come l'impresa necessaria: una raccolta sistematica, organica e scientificamente condotta della maggior parte degli scritti di questo autore. "Opere scelte" si legge in testa ai due unici volumi apparsi e immediatamente scomparsi dalla circolazione: la casa editrice, Protagon di Perugia, si inabissò senza lasciar traccia. Tralascerò di soffermarmi sulle pecche metodologiche di quell'edizione, e sulla stessa discutibile distinzione che reggeva (o meglio, avrebbe dovuto reggere) l'impresa: scritti storici e politici, scritti filosofici e religiosi, scritti pedagogici, scritti letterari, scritti sulla nonviolenza (per questi ultimi rinvio alla mia recensione sull'"Indice", 1993, n. 2). Distinzione sempre pericolosa, che nel caso di Capitini costituiva una sorta di manomissione dell'integrità, cercata e praticata dall'autore, tra temi, contenuti e modi espressivi. (Come si potevano pensare separati gli scritti che parlano di nonviolenza da quelli che parlano di religione, in un autore per il quale la politica è morale, la morale è religione, e la filosofia parla liricamente?) Sta di fatto che rispetto al piano iniziale in cinque volumi, ne uscirono soltanto due, uno dei quali - quello contenente gli Scritti filosofici e religiosi, curato piuttosto sbrigativamente, ma amorevolmente introdotto da Mario Martini (il quale da anni si dedica con grande serietà a ricostruire il percorso filosofico-religioso di Capitini) - è oggi disponibile presso il nuovo editore (Centro Studi A. Capitini, Perugia) su ordinazione (Lit 50.000, ccp 14826069). Insomma siamo ancora nella semiclandestinità, e nella precaria fisionomia di un autore che i suoi cultori sembra si ostinino a considerare un taumaturgo da venerare più che un pensatore da conoscere.
E qui siamo all'altro punto dolente, evidenziato nelle stucchevoli celebrazioni del centenario. Nella travolgente moda della rincorsa alle nuove conciliazioni e alle eventuali nuove abiure, il povero Capitini, snobbato da vivo, può anche godere di un momento di popolarità come liberalsocialista, magari in compagnia di Rosselli e altri incolpevoli pensatori. Questo tuttavia era prevedibile. L'altra faccia delle celebrazioni è quella più grave, in realtà, perché rivela la ragione stessa della persistente scarsa fortuna di Capitini nell'intelligencija italiana. Il fatto è che - come mostra l'ormai nutrita fila di volumi, volumetti e saggi che possiamo allineare davanti a noi - di Capitini, salvo scarne e nobili eccezioni (Bobbio, Claudio Cesa, e poc'altro, tralasciando la memorialistica, generalmente assai più utile della pseudosaggistica con cui abbiamo qui a che fare), si sono occupati non studiosi ma seguaci, con conseguenze facilmente intuibili. Capitini non esce dal ghetto dei "persuasi" della nonviolenza integrale, il suo pensiero è ridotto a una poltiglia informe, la sua complessa e straordinariamente ricca biografia intellettuale confinata nella cornice di una modesta agiografia di provincia.
Sicché su Aldo Capitini, mentre siamo afflitti da una congerie di analisi escatologiche, di omogenizzazioni surrettizie, di distinzioni superflue, e quant'altro il lettore possa immaginare, manca uno straccio di ricostruzione storico-critica che collochi il pensatore, l'uomo, lo scrittore e il professore universitario nei diversi tempi attraversati (i "due terzi del secolo" a cui egli intitolò un famoso squarcio autobiografico vergato prima di affrontare l'intervento chirurgico che gli fu fatale il 19 ottobre 1968), in relazione agli studi, alle letture, agli ambienti, agli incontri con persone ("ho incontrato più giovani io che chiunque altro", ebbe a dire più volte, credo a ragione), e così via. Al riguardo v'è da chiedersi come mai l'enorme Archivio Capitini - depositato presso l'Archivio di Stato perugino, e purtroppo gestito in modo penalizzante gli studiosi - sia finora poco per non dire quasi nulla utilizzato da chi di Capitini si è occupato.
Se ciò si facesse - ossia, se si studiassero da storici la personalità, il pensiero e l'opera di Capitini - si potrebbe agevolmente constatare come egli non fosse quel simpatico mattacchione, quello stravagante santone o santino, quel bizzarro personaggio che usava formule al limite dell'incomprensibile (apertura, persuasione, aggiunta, compresenza, tu-tutti, coralità, ecc.): piuttosto, un intellettuale che passa, contaminandosene, attraverso le principali correnti culturali della sua epoca, che vive politicamente e insieme religiosamente le drammatiche esperienze delle guerre, del fascismo, dell'antifascismo, del regime democristiano. Parlare di Capitini significa parlare di Gentile, della Normale di Pisa, della eccezionale pattuglia dei gentiliani, della via italiana alla filosofia della crisi, della minoritaria battaglia per la laicità della scuola e dello Stato, della convinta appartenenza alla sinistra, senza paura di confrontarsi con Marx, con il marxismo e nemmeno con il socialismo reale. Un intellettuale minore del panorama nazionale, certo, Capitini, ma tutt'altro che sconnesso da alcune delle pulsioni più vivaci della filosofia euro-americana del Novecento, e comunque fra i più interessanti del secolo che si è appena chiuso, e che meriterebbe di essere studiato e letto, appunto, non adorato e di fatto maltrattato e tenuto segregato. Insomma, è tempo di strappare Capitini ai capitiniani.


recensioni di Polito, P. L'Indice del 2000, n. 04

La via della nonviolenza - capitinianamente intesa - si distingue dalla via della pace attraverso il diritto (pacifismo giuridico) e dalla via della pace attraverso la rivoluzione (pacifismo sociale) per una diversa considerazione del rapporto tra i mezzi e i fini e per la proposta di nuovi strumenti per la soluzione dei conflitti.
Gli strumenti della tramutazione sono la non collaborazione, la non menzogna, la nonviolenza. Se la non collaborazione con la legge ingiusta indica l'atteggiamento nonviolento verso lo Stato, la non menzogna e la nonviolenza sono i modi in cui il persuaso si pone in rapporto con l'altro. In prima istanza, il fondamento della nonviolenza è il rispetto assoluto della vita.
Uno dei luoghi significativi in cui Capitini definisce la nonviolenza è l'articolo Il nostro programma (1964): "Nonviolenza è non oppressione, non tormentare, non distruggere nemmeno gli avversari, cioè apertura all'esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti. Questo può essere il programma e la tensione di persone isolate, e può diventare il metodo di lotta di grandi moltitudini". Accanto a una faccia negativa, che si esprime nell'atto di non uccidere, dunque, la nonviolenza presenta una faccia positiva, che si manifesta come "apertura all'esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere".
L'apertura riguarda non solo gli uomini, ma anche gli animali e le cose. Dalla nonviolenza verso le cose deriva il precetto di non sciuparle e di considerarle non solo per la loro utilità.
Dalla nonviolenza verso gli altri organismi viventi deriva il precetto di non cibarsi degli animali. Il vegetariano si nutre di prodotti della terra e di derivati degli animali, ma senza ucciderli. Anche se oggi non sembra possibile rispettare in modo assoluto la vita degli animali, questa è, per Capitini, la direzione della nonviolenza.
Dalla non violenza verso il prossimo deriva il precetto di non uccidere l'altro uomo, che negli Elementi di un'esperienza religiosa (1937) Capitini afferma con una frase memorabile: "Guardiamoci intorno: troppe nefandezze sono oggi compiute 'a fin di bene'; gli uomini sono considerati come cose; ucciderli è un rumore, un oggetto caduto".
Come ha sostenuto Giuliano Pontara, verso la nonviolenza si può assumere l'atteggiamento del pragmatico o del persuaso. Entrambi accettano il principio della massima riduzione possibile della violenza nel mondo. Ma il pragmatico non è un pacifista assoluto e, ultima ratio, ammette il ricorso alla violenza. Per Capitini, occorre passare dalla nonviolenza pragmatica alla nonviolenza persuasa: il persuaso rifiuta, qui, subito, il più possibile, ogni forma di violenza, e si pone fuori dal circolo vizioso della violenza che chiama violenza.

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