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“C’è sempre una segreta voglia di essere già altrove, nelle immagini della nostra giovinezza. Quei sorrisi spediti all’obiettivo in realtà guardano lontano, verso un tempo dove tutti i sogni saranno realizzati, le paure scomparse, le certezze un fortilizio imprendibile.. In queste immagini il tempo non ha ancora valore né voce in capitolo, siamo noi a comandare, certi che l’eternità dovrà appartenerci di diritto. Un’eternità che svanisce ai primi calci del destino, alle prime rughe, ai peli bianchi della barba, agli occhiali da lettura, alla rincorsa inutile per salire su un treno in partenza”. In tempi letterariamente tristissimi, nei quali il noir, il giallo e il poliziesco da narrativa di genere sono diventati narrativa a tutti gli effetti, Sergio Pent continua a sembrare uno dei pochi a scegliere temi universali e “classici” come la nostalgia e il rimpianto; a mettere in gioco i sentimenti. Tra i diseducativi italiani contemporanei sembra non venga più pubblicato nulla che non contenga un mistero finale da risolvere, verso il quale l'intero romanzo converge, e che è la sua unica ragione di essere. In questo modo si stimola e allena l'aspetto peggiore della lettura - quello di scoprire "come va a finire" -, a discapito del piacere della lettura in sé. Invece dovrebbe essere come quando si viaggia, no?, quando ciò che conta non è arrivare, ma il viaggio in sé.
Se non avesse già scritto "il custode del museo dei giocattoli" direi che è il miglior libro che io abbia mai letto. Consigliatissimo.
Dopo il Premio Volponi, vinto in mezzo ad altri quattro importanti libri, finalmente un momento ufficiale per collocare questo bel romanzo.
Recensioni
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A chi penserà un lettore normalmente cinefilo nel leggere che un giovane insegnante con la vocazione del critico cinematografico (poi anche risibile sceneggiatore una tantum) incontra per un'intervista, nel 1977, un'ex quasi diva del cinema muto di nome Norma D'Abate? Naturalmente alla Norma Desmond di Viale del tramonto (1950). L'allusione intertestuale al capolavoro di Billy Wilder serve innanzitutto a inscrivere il nuovo romanzo di Pent entro un universo semantico marcatamente melodrammatico, anche perché di frusti melodrammi era interprete Norma D'Abate, negli anni in cui già declinava il miracolo produttivo del cinema torinese, e nei quali lei decideva di ritirarsi − misteriosamente e prematuramente − a vita privata.
D'altra parte, l'incontro con Norma rappresenta sì un punto di svolta nella vita del protagonista io narrante del romanzo, ma non nel senso tragico-grottesco che nel film di Wilder condannava il protagonista io narrante alla morte. Il giovane professore avrà modo di "attraversare" l'orrore privato e le tragedie del Novecento attraverso i ricordi dell'ottantenne Norma e del suo antico amante Valmorin, ex attore e torturatore fascista, ritiratosi nella natia val Susa per occultare il suo passato sanguinario, tentando di assomigliare al nonno buono di quella Heidi di cui guarda i cartoon alla tv. Se tale "attraversamento" turba profondamente il protagonista − anche perché coincide con l'uccisione, durante un corteo, della sua ragazza, Valentina, una fascinosa estremista già pronta per la clandestinità –, d'altronde questo grumo di sangue presente e passato avrà il potere di bloccarlo in una condizione di diuturna abulia: "La voglia di lottare svanì tra le bombe e gli spari, mentre la pellicola restava sempre dall'altra parte e io sentivo che il mio destino sarebbe stato quello, di guardar scorrere la vita attraverso gli altri ma di non riuscire, di non poter partecipare".
L'io narrante, insomma, sposa la sentenza dell'amato Grande Gatsby − "Così continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinte senza posa nel passato" − e così la chiosa: "È questo che mi accade, ogni volta che guardo indietro. Perché quel che mi aspetta, per tanto che sia, non sarà mai più importante come quel poco che ho perso, senza appello". La perdita della ragazza amata si lega alla perdita, l'anno seguente, delle residue illusioni di accesso al mondo di Cinecittà; fine della giovinezza come fine delle ambizioni, dunque: la frase memoranda di Norma, "il tempo non ci aiuta a capire, ma solo a ricordare", martella nella sua mente nella parte "in cornice" del romanzo, ambientata nel 2001, quando decide di rivedere, al Museo del cinema della Mole Antonelliana, l'unico film superstite di Norma D'Abate, di ritrovarne la prodigiosa seduttività nelle immagini bolse di Rapiti dal destino.
In fondo, il suo è un percorso speculare a quello di Norma, che lasciò il cinema per essere buona moglie di un marito mediocre, per cicatrizzare il ricordo delle violenze subite da Valmorin e della perdita di un "figlio della colpa" che l'amante le sottrae alla nascita. Per la complicità creatasi durante l'intervista, Norma chiederà all'io narrante di improvvisarsi detective e andare sulle tracce dell'amante e del figlio perduto: ed è la parte in cui il talento comico di Pent dà la miglior prova di sé (memorabile la visita all'ospedale psichiatrico!). Il resto del romanzo è invece sospeso tra quieta elegia e sdegno frenato, in un tono che si nutre di salutare ironia e autoironia ma che indulge, forse un po' troppo, alla tentazione gnomica.
Il romanzo, come già il precedente Il custode del museo dei giocattoli (cfr. "L'Indice", ???) ha una struttura complessa, giocata sull'andirivieni temporale tra 2001 e 1977 e complicata dal fatto che il je actuel ricorda anche vicende successive al '77 e che il moi révolu dà voce a personaggi che ricordano vicende svarianti tra gli anni venti e i quaranta. Peraltro, le necessarie analessi sono screziate da sapienti prolessi, utili soprattutto ad avvicinarci alla morte di Valentina. Dal punto di vista strutturale, Un cuore muto segna un passo avanti rispetto alla già matura prova precedente, forse più generosa e ariosa nella creazione fantastica di personaggi e situazioni: ma noi preferiamo, tutto sommato, la sommessa musica torinese di Un cuore muto, la coraggiosa capacità di far trascolorare il melodramma in elegia, con l'ausilio del contrappunto ironico e grottesco.
gtraina@unict.it
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