Qualche riferimento alle proprie personali esperienze e un paio di gustosi aneddoti attinti ai ricordi della propria vita non guastano in un saggio ed è abbastanza scontato aspettarseli se l'autore ha una lunga vita alle spalle. Niente di male, quindi, se Wilson accenna alle sue fobie, le involontarie concessioni all'irrazionale contro le quali sente di non poter combattere. E dobbiamo anche accettare che ci parli estesamente di formiche, non solo perché al loro studio ha dedicato buona parte della sua lunga attività scientifica, ma anche, o soprattutto, perché è dallo studio di questi insetti sociali che è emerso il suo più generale interesse per le comunità animali, sulle quali ha costruito un intero programma di ricerca, complesso e molto dibattuto, quello della sociobiologia. Dall'ormai lontano 1975, l'anno in cui uscì il suo grosso volume intitolato appunto
Sociobiology, il pensiero di Wilson si è progressivamente sviluppato, accompagnando il suo crescente interesse per la specie umana testimoniato da diversi saggi, fino a quest'ultimo sul significato dell'esistenza umana, uscito in America lo scorso anno e disponibile da qualche mese anche nella nitida traduzione italiana di Isabella C. Blum. Dell'impianto originario della sociobiologia, peraltro, Wilson ha conservato due colonne portanti: una visione gene-centrica della struttura corporea degli animali, uomo compreso, e la convinzione che, oltre alla genetica, tutto ciò che c'è di importante, per interpretare anche i più complessi comportamenti degli animali sociali, sia una dose adeguata di neurobiologia. Ne deriva un sostanziale riduzionismo che nel saggio qui recensito tocca il suo punto estremo nell'affermazione che il desiderio di odissee e avventure in luoghi remoti è scritto nei nostri geni: un'espressione, quest'ultima, che siamo purtroppo abituati a sentire nella pubblicità di ogni giorno e che nel 2007 fu fatta propria dall'allora vicepresidente del Cnr. Ma non è che un inciso, per fortuna. La visione di Wilson è ricca di ottimismo. Dalle sue pagine emerge il quadro di un'umanità che, a dispetto dei suoi molti problemi e dei suoi molti errori, è sostanzialmente ben adattata a vivere sulla terra. Se arrivassero degli extraterrestri, afferma, non dovremmo preoccuparci troppo, perché da un confronto con l'umanità i primi a perire sarebbero proprio gli alieni. Una visione, questa, che contrasta singolarmente con gli scenari potentemente tratteggiati da Jared Diamond in
Armi, acciaio e malattie, dove il confronto fra umani appartenenti a civiltà diverse, nel corso dei secoli, ha visto quasi sempre il prevalere degli invasori. Soffermiamoci un attimo sulle pagine in cui l'autore ci presenta il suo ritratto di E.T. L'esercizio intellettuale necessario per costruire degli extraterrestri dotati di proprietà fisiche e biologiche plausibili corrisponde, naturalmente, a uno sforzo parallelo per individuare i vincoli fisici e biologici a confronto con i quali ha preso forma l'umanità attuale. Anche se la distanza da noi alla quale si collocano questi extraterrestri, nell'immaginario dell'autore e del lettore, è formalmente assai maggiore di quella che separava gli Uroni o i Cinesi di Voltaire dai suoi connazionali, l'esercizio alla fine è simile a quello del filosofo francese. Ipotetici parallelismi o somiglianze suggerite con aperta ironia presuppongono in ogni caso una corrispondenza tra "noi" e "loro" che può derivare solo dalla convinzione che la natura abbia gradi di libertà ben ristretti. In un biologo di oggi, questa è un'evidente riprova della sua adesione a una visione sostanzialmente deterministica del vivente, che può andare d'accordo con certe forme di neodarwinismo, ma che non siamo obbligati ad accettare. Tutte queste, comunque, sono questioni sulle quali possiamo considerare aperto il dibattito ed è possibile che la lettura del nuovo libro di Wilson ne stimoli un proficuo sviluppo. Ma il tema centrale del libro è un altro. O, almeno, dovrebbe essere un altro. Il titolo promette, infatti, un saggio sul significato dell'esistenza umana. Nelle prime pagine l'autore dichiara apertamente la propria posizione laica in proposito, articolandola in due linee principali. Da un lato, l'uomo è un essere vivente e più precisamente un animale, anche se con sue peculiarità specifiche assai notevoli: in particolare, è dotato di un cervello capace di prestazioni eccezionali, tra le quali lo sviluppo di sofisticate forme di comunicazione che a loro volta hanno permesso l'evolversi di società complesse e capaci di realizzazioni straordinarie. Ne consegue che per comprendere la natura dell'uomo occorre partire dalla biologia, seguire le tappe che hanno portato uno dei tanti rami dell'albero della vita a dare forma alla specie
Homo sapiens e poi imboccare la strada della sociobiologia con qualche ammiccamento diretto agli altri animali sociali, le formiche in particolare per capire origine, sviluppo, natura attuale e forse anche prospettive future dell'uomo come animale sociale. In tutto questo percorso intellettuale, dice Wilson, mettiamo da parte tutto ciò che non è scienza, le religioni in particolare, perché non ci servono, anzi ci portano fuori strada. Dall'altro lato, l'uomo non ha prodotto solo scienza, ma anche le cosiddette
humanities. E qui, pur senza lasciarsi andare all'ennesima postilla all'annoso dibattito sulle due culture, Wilson auspica sempre sorretto dal suo inguaribile ottimismo un dialogo fattivo fra le
humanities e il pensiero scientifico, a favore di un arricchimento del futuro dell'uomo. Ma di quale uomo? Giunto all'ultima pagina del libro di Wilson e soffermando nuovamente lo sguardo sulla copertina, mi chiedo: chi è l'uomo della cui esistenza l'autore pretende di aver spiegato (o, almeno, contribuito a spiegare) l'esistenza? È l'uomo come specie, l'
Homo sapiens uscito come tutte le altre specie con cui condivide la dimora sul pianeta terra da una lunghissima vicenda evolutiva, oppure è il singolo individuo umano come te, lettore, o come me, o come lo stesso Edward O. Wilson? È ben vero che nessun uomo è un'isola, anche se sul breve e medio termine la dipendenza di un essere umano dai suoi legami sociali non è sempre e necessariamente così stretta come lo è per una formica, ma è anche vero che la società alla quale ciascuno di noi appartiene o, meglio, l'inestricabile groviglio di strutture sociali alle quali ciascuno di noi appartiene non è sinonimo di specie umana. Non pretendo di sapere con precisione quale sia il significato della mia esistenza, o quella delle diverse realtà sociali alle quali appartengo, ma temo che l'uomo, come specie, non ne abbia una. Se esistesse davvero una "natura umana" come proprietà della specie, allora dovremmo essere pronti a riconoscere una loro natura anche a ciascuna delle altre specie viventi. Ci fermeremmo allora agli altri primati? Oppure allargheremmo il nostro riconoscimento a tutte le specie dei mammiferi? E gli uccelli? E i pesci? Ecco, a conti fatti, cosa manca, nel libro di Wilson. Manca l'individuo umano, quello che quando è
compos sui ogni tanto si interroga sul significato della propria esistenza. Una circostanza, questa, nella quale sarebbe cosa preziosa se il nostro individuo fosse cosciente di quanto la scienza, la biologia in particolare, gli può dire a proposito dei suoi antenati, più o meno remoti, e delle proprietà del suo cervello e di quello dei suoi simili. Allora, forse, l'unificazione fra quanto hanno da insegnarci la scienza e le
humanities non sarà un mero esercizio accademico, come accadrebbe se l'una e le altre si applicassero solo all'uomo come specie, anche perché ciascuno di noi potrà fare il possibile per dosarlo a modo suo, nel cercare di dare un significato alla sua esistenza personale. Alessandro Minelli