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Ma un critico letterario, che oltretutto sia anche critico della cultura, non si stanca mai di "criticare"? La vita non è fatta solo di analisi e di giudizi. Chi lo costringe a vagliare incessantemente l'intera produzione culturale di un paese, a smontare miti, a demistificare mode, a smascherare imposture, per poi ogni volta ricominciare l'ingrato lavoro, come un Sisifo moderno? Non prova ogni tanto disgusto nei confronti della materia che tratta? Mi scuso per questi interrogativi un po' grezzi. Ma credo che non siano del tutto abusivi a proposito di quest'ultimo libro di Alfonso Berardinelli, che è poi "la somma di due o tre libri". Proverò a dare una mia risposta, soffermandomi però prima su questi due o tre libri, densi di temi e figure della contemporaneità.
Non riesco a immaginare migliore introduzione alle intricate vicende culturali del nostro paese nell'ultimo mezzo secolo. A partire dagli anni sessanta, dall'Arbasino euforico e cosmopolita, dal Parise anarchico e apocalittico, dal giornalista Bocca imitatore dello stile di Gadda (!), e passando per la neoavanguardia (rottura con il passato come "programma di ricerca" nell'arcimboldesco Sanguineti) e poi per l'"estremista evangelico" don Milani, e ancora commentando l'ambiguo revival della poesia negli anni settanta (come indiscusso "diritto alla creatività"), descrivendo poi magistralmente l'estremismo ridotto a stile d'epoca dei Calasso, Zolla, Fortini e Tronti, fino all'originale formulazione di una previsione sull'attuale cambiamento di paradigma culturale (dal postmoderno all'età della mutazione). Il quadro d'insieme acquista una trasparenza che non capita di trovare spesso in analoghe ricostruzioni storiografiche. Anche perciò mi appaiono insensati i sospirosi elogi dello stile di Berardinelli, a prescindere dai "contenuti" della sua saggistica: trattarlo come oggetto da degustazione estetica significa depotenziarlo in un prosatore d'arte.
In queste pagine improvvisamente la storia culturale (ma non solo) del nostro paese, apparentemente opaca come la nostra politica, diventa perspicua. Il presente contiene il passato e anzi ne rivela la malattia segreta, i suoi demoni retorici, combinatori ed estetizzanti. La definizione della modernità come progetto incompiuto, alla perenne e vana ricerca di chi dovrà compierlo, si attaglia perfettamente all'Italia. L'esplicita tendenziosità del giudizio diventa qui il principale strumento conoscitivo. L'ubi consistam della sua critica dell'ideologia la sorgente che l'alimenta è ipogeo ma non del tutto invisibile: si tratta di un'etica non "moralistica", che si appoggia non tanto a principi astratti quanto a una "fisiologica" attitudine a identificare ciò che è irreale nella vita culturale e sociale (e cioè artificioso, esibito, di chi simula idee e passioni, di chi finge radicalità e solennità e profondità). I ritratti degli autori sono condensati in formule lapidarie e aforistiche. Né si deve pensare solo a un'immane pars destruens: le pagine dedicate a Auden, Enzensberger, Elsa Morante, Pasolini ribelli misantropi mostrano senza reticenza le predilezioni dell'autore. Possiamo anche dissentire dalle valutazioni di Berardinelli (ad esempio: a me sembra che Calvino più che insegnarci a sopravvivere alla fine del mondo ci mostri gli effetti della fine del mondo su di noi). Però mi sembrano fuorvianti certe accuse di aristocraticismo rivolte all'autore, il quale si rivolge non a circoli di letterati o ad associazioni di docenti universitari, bensì a una comunità trasversale, potenzialmente illimitata, formata semplicemente da lettori in quanto singoli.
Vengo alla questione cui accennavo. Chi glielo fa fare al critico? Non si annoia mai nella sua paziente impresa di decostruzione degli idoli? Il punto è che in ogni pagina del libro si percepisce una contagiosa felicità creativa, che poi si riflette nella felicità della scrittura, in uno stile cartesiano ed evocativo, metaforico e puntigliosamente argomentativo. Berardinelli, soprattutto, si diverte e si ingegna a costruire un teatro culturale vivacissimo, attraverso cui la realtà stessa si manifesta "naturalmente" nei suoi lati grotteschi, abitata da maschere che appartengono al nostro presente (e alla tradizione) ma che sono anche eterne. Dietro la tagliente perentorietà di Adorno, travasata nella chiarezza comunicativa di un Edmund Wilson, spunta il palcoscenico di Molière. Gli Eco e i Citati e i Severino qui ritratti sono caratteri italiani memorabili, costrutti umani di cui ci si svela il meccanismo interno, però mai banali; protagonisti sapientemente cesellati di una messinscena satirico-farsesca, in quanto tali riconoscibili (e godibili) anche tra cent'anni. Una costruzione del genere non è solo operazione "ecologica", fatta per spirito di servizio (ad esempio dirada per un po' la nube tossica dell'heideggerismo), ma si configura come avventura intellettuale emozionante, senza rete e senza garanzie istituzionali, sempre un po' sospetta per i burocrati del sapere e della critica. E proprio questo teatro ci parla di noi con più immaginazione artistica e più esattezza antropologica di quasi tutti i romanzi italiani contemporanei. Filippo La Porta
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