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Di norma "Riga" esce con numeri monografici riservati a uno scrittore o a un artista, quasi a delineare un canone della ricerca espressiva dello scorso secolo: un canone aperto, atipico, che annoda percorsi valicanti i confini tra le culture nazionali e le forme d'arte. Gli ultimi, ad esempio, hanno per oggetto Arbasino (n. 18, a cura di Marco Belpoliti e Ezio Grazioli), Brancusi (n. 19, a cura di Elio Grazioli), Kundera (n. 20, a cura di Massimo Rizzante). Esiste però una direttrice d'indagine alternativa, per certi versi complementare: la riflessione sui progetti di rivista non realizzati. Dopo "Alì Babà" (n. 14), la rivista che Calvino, Celati e Guido Neri concepirono negli anni fra il '68 e il '72, ecco il n. 21, curato da Anna Panicali e dedicato a "Gulliver". Non credo occorra insistere sull'importanza di queste esperienze interrotte: analogamente a quanto accade per i lavori incompiuti o le varianti scartate nell'opera di scrittori singoli, le iniziative collettive rimaste allo stadio di abbozzo mettono in luce rovelli problematici, orientamenti, potenzialità che condizionano anche i progetti che vanno a buon fine.
Il progetto "Gulliver" - rivista internazionale ideata e guidata da una redazione italo-franco-tedesca e destinata ad apparire simultaneamente nei tre paesi - non è mai stato un mistero: il "Menabò 7", edito nella primavera del '64 per le cure di Francesco Leonetti, si presentava come una sorta di numero zero della nuova testata (anche se di fatto ne sanzionò il decesso). In seguito non sono mancati contributi e ragguagli critici; il più recente è "Gulliver". Carte Vittorini e Leonetti in Europa nel sessanta, a cura di Maria Temperini (Lupetti-Manni, 2000). Questo numero di "Riga" raccoglie ora la più ampia documentazione possibile: materiali preparatori, carteggi, testi preliminari, appunti redazionali, più un'ampia scelta dal "Menabò 7" e una nutrita serie di saggi e interventi (Anna Panicali, Marco Consolini, Daniele Gorret, Guido Bonsaver, Eva Banchelli, Francesco Leonetti).
"Gulliver" era stata pensata come una rivista insieme collettiva e internazionale: non banalmente multinazionale o cosmopolita, bensì germinata dal sentire comune di un gruppo di collaboratori di diversi paesi (ebbe fortuna l'idea di "comunità genetica", e non teorica, formulata dal filosofo polacco Kolaskowski). Inoltre, avrebbe dovuto essere una rivista di scrittori: "una rivista di pensiero fatta da scrittori", che - secondo le parole di Dionys Mascolo, redattore di Gallimard e amico di Vittorini - "non s'interesserà a tutto, bensì solo al tutto, dove il tutto è in gioco". Premesse fondamentali, il tramonto della stagione dellÆengagement e la percezione di un "mutamento d'epoca" che oggi, con il lessico di poi, potremmo chiamare l'avvertimento dell'incipiente globalizzazione. A ciò si aggiunge un fattore specificamente francese, le conseguenze della guerra d'Algeria, tramite l'esperienza collettiva del cosiddetto Manifesto dei 121 - cioè la Dichiarazione sul "Diritto all'insubordinazione" (Droit à l'insoumission) del settembre 1960.
Per alcuni mesi i tre gruppi - in Italia Vittorini, Leonetti, Calvino, nonché Pasolini e Moravia; in Francia Blanchot, Mascolo, des Forêts, ma anche Barthes, Leiris, Nadeau (il direttore delle "Lettres Nouvelles"); in Germania Enzensberger, Uwe Johnson, Walser, Grass, Ingeborg Bachmann - lavorano e corrispondono con alacrità. Presto però insorgono problemi. Il trauma del muro di Berlino (13 agosto 1961) induce alcuni tedeschi, Enzensberger in testa, a concentrarsi sulla specifica realtà nazionale. Trovare un sostegno adeguato da parte di tre diversi editori comporta difficoltà (anche se alla fine Einaudi, Juillard e Suhrkamp si diranno disponibili); e non facile è intendersi sul grado di autonomia da concedere ai singoli gruppi e collaboratori rispetto all'ideale collettivo della conduzione. Non superabile si dimostrerà infine il dissidio tra francesi e tedeschi sul ricorso al particolare tipo di "forma breve" predicata da Blanchot: una brevità costitutivamente frammentaria, aliena dalla concisione ultimativa dell'aforisma, in grado di trasmettere l'impressione di un'essenziale discontinuità.
A tacere delle diverse tradizioni culturali, è fin troppo facile ipotizzare che nella granitica Francia gollista l'idea del frammento portasse in sé una carica critica incomprensibile o quanto meno non esportabile nella Germania spezzata e divisa, dove viceversa allignavano esigenze di organicità e (etimologicamente) di sintesi. Ma la stessa idea di una rubrica o cronaca collettiva denominata Il corso delle cose, pure avanzata da Blanchot, e composta da una libera successione di frammenti numerati, non era agevole da tradurre in pratica, giacché assomigliava più a un assunto di poetica individuale che a un metodo di intervento collettivo. Non a caso, come osserva Consolini, negli anni seguenti la scrittura di Barthes interpreterà l'istanza della discontinuità trasformandola in uno stile quanto mai personale di pensiero e di ricerca.
Un fallimento inevitabile, dunque? Forse: tanto più che l'unico che avrebbe saputo ricomporre organizzativamente le diverse esigenze, Vittorini, viene a un certo punto messo fuori gioco dalla malattia. E tuttavia quelle energie non furono spese invano. Blanchot aveva ammonito che, qualora il progetto fosse fallito, occorreva "fallire utopicamente". Gli anni sessanta e settanta saranno intrisi di utopismo: politico, intellettuale, letterario, perfino critico. Mille rivoli, che si dirameranno anche dalla sorgente nascosta di "Gulliver".
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