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Anno edizione: 2011
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Un bel libro scritto dal punto di vista dell'insegnante medio colto e preparato Elias, che però, di fronte ai suoi studenti, non può affrontare un passo rivelatore de "L'anatra selvatica" di Ibsen: questo passo dice che proprio lui, il professore, ha fallito nella vita. E ha fallito perché l'hanno fatto fallire, l'hanno incastrato e ora non c'è rimedio. Chi è stato? Uno più furbo, che egli stesso ammirava smisuratamente da giovane: Johan, il filosofo, l'intellettuale multiforme che passa dalla parte del capitale e scarica moglie e figlia sulle spalle di Elias. Eterna vicenda ibseniana, in cui i furbi hanno il coraggio di "fare il salto della quaglia" e scaricare sui buoni / fessi le loro responsabilità. Non mi sorprende che i lettori italiani, abituati a questo genere di tradimenti fin dai tempi di Machiavelli, non abbiano apprezzato il testo.
Uno dei libri più noiosi, pretestuosi e borghesi letti negli ultimi anni. La trama è di una banalità esacerbante. È costruito male, una suddivisione in due parti in gin dei contin slegate, non armoniose. È certamente un gran maestro della penna a scriverlo, lo stile è pensato, studiato, pesato ma crolla la struttura e l originalità delle idee... la trama si sarebbe prestata a evoluzioni molto più spiccate, ironiche, tragicomiche ( come a volte si adocchia in in alcuni passi), invece rimane piatta. Un esercizio di stile ed il tributo ad un’ideologia che non c’ è piu.
Anni Novanta, Oslo. Elias Rukla è un insegnante, " un po' alcolizzato" di cinquantatré anni, sua moglie Eva Linde, che da giovane era stata una "bellezza quasi irreale, inconcepibilmente bella, con un viso indescrivibilmente bello", ora ha il corpo pesante, flaccido e le vene varicose. Era stata, Eva, la moglie di Johan Corneliussen, grande amico di Elias ai tempi dell'università. Elias, allora, viveva all'ombra di Johan dal grande appetito vitale: " passava disinvoltamente dall'hockey su ghiaccio a Kant, dall'interesse per i manifesti pubblicitari alla scuola filosofica di Francoforte, dal rock'n'roll alla musica classica". Erano stati anni molto fecondi intellettualmente. Ora Elias insegna norvegese, da venticinque anni,nell'Istituto Superiore di Fagerborg. Gli alunni non lo ascoltano, lo ignorano, sbuffano, si annoiano, non gli importa nulla dell'analisi dell "Oca selvatica" di Ibsen. E una mattina di pioggia autunnale Elias esplode e nel cortile della scuola, travolto dall'ira, fa a pezzi l'ombrello sotto gli occhi degli alunni e degli altri professori...E nulla sarà come prima.
Recensioni
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Due romanzi di Dag Solstad
Il narratore di «Romanzo 11, libro 18» (titolo che scandisce l’ordine del libro nella produzione complessiva, all’epoca, di Solstad) riferisce di quando Bjørn Hansen, il personaggio principale, «ammise all’improvviso che quasi tutte le letture che gli piacevano erano libri impietosi, che mostravano come la vita fosse impossibile e contenevano un umorismo nero e amaro» (cito nella traduzione di Maria Valeria D’Avino). Dag Solstad è uno scrittore importante e molto nero: la Paris Review l’ha paragonato a Günther Grass e Philip Roth, e la citazione potrebbe essere una descrizione soddisfacente dei suoi libri, o almeno di quelli che ho letto. Norvegese, nato nel 1941, considerato tra i maggiori narratori scandinavi viventi, bastano poche pagine di un suo romanzo per riconoscere da subito il timbro e il ritmo di una scrittura che impone senza ostentazione la propria inconfondibile originalità: amarezza e umorismo, appunto, e un torpido, attonito e ostinato incaponirsi a registrare il grottesco andare a vuoto della vita e dei rapporti umani, con quel surplus di nordica e anaffettiva introversione che aggrava e stranisce. Bjørn Hansen è un funzionario pubblico norvegese che si diletta di teatro e improvvisamente si trova ad affrontare la coabitazione con il figlio avuto da un precedente matrimonio e abbandonato in giovanissima età. Nel frattempo intraprende la progettazione di un misterioso «piano». Terrorizzato dal rischio di «morire senza una parola da dire, nemmeno a se stesso», ossessionato dal proprio fallimento esistenziale, Hansen immagina questa impresa come la realizzazione simbolica del suo «grande No». Mentre cerchiamo di capire in cosa consista tutto ciò, assistiamo ai difficili contatti tra padre e figlio. Ottusamente chiuso in sè stesso e nelle sue algide cogitazioni (è tecnicamente perfetto - oltre che un marchio di stile nettissimo- il modo in cui il narratore, attraverso focalizzazioni alternate e lunghe frasi ripetitive e piene di subordinate, entra ed esce dalla testa di Hansen), vede il figlio come un rappresentante piuttosto anonimo di una generica «indolente e fanfarona» gioventù. Quello di un’interruzione generazionale è un tema ricorrente in Solstad e al centro di un altro splendido romanzo (come tutti pubblicato da Iperborea) intitolato «Timidezza e dignità», molto vicino a «Romanzo 11, libro 18». Qui (ne approfitto per allacciarmi ad altre pagine di linus di questo mese) un professore di liceo crolla miseramente di fronte a una classe di maturandi sonnolenti per nulla interessati alle sue intuizioni critico-letterarie. In entrambi i romanzi il gap generazionale è inserito nel quadro del discrimine epocale rappresentato dalla fine dell’ideologia marxista-leninista cui i personaggi in questione - come l’autore - hanno affidato buona parte della propria visione del mondo. Al capitalismo trionfante risponde la psicologia novecentesca dei dignitosi e goffi personaggi solstadiani: splendidi inetti depotenziati della carica rivoluzionaria che simili figure contenevano nel romanzo del primo novecento (cui Solstad si riferisce spesso), drammatici e involontariamente comici, isolati e votati allo scacco, mentre intorno sembrano tutti darsi da fare a rubare loro il mondo, avanzando di buona lena verso un futuro inspiegabile e spensierato. Calarsi nei loro panni è un’esperienza avvincente e inquietante: vuoi per la straordinaria e acutissima neutralità attraverso cui il narratore ci consente d’immedesimarci, vuoi perché, per quanto assurdi e malsani, hanno le loro oscure ragioni, non possiamo impedirci di provare nei loro confronti una strana, vischiosa, simpatia.
Recensione di Mazza Galanti
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