"Facciamoci due chiacchiere. Due chiacchiere di cose oziose e perciò piacevoli. Due chiacchiere di quello che ci fa ridere nelle persone che conosciamo". Così, un po' schermendosi, un po' ammiccando sornione, Fazil' Iskander introduceva il lettore che si apprestava a seguire il filo di un suo vecchio racconto. Un filo che si dipana tra svolte e pause, come i viottoli che s'inerpicano tra i monti della sua Abcasia. "Sono uno scrittore russo, ma un cantore dell'Abcasia", spiega così lo scrittore la difficile posizione che lo vede messo di traverso tra due culture, per cui la sua densa scrittura si nutre di un humus composito: la splendida chiarezza pukiniana, l'irridente comicità gogoliana, i tangibile dettagli tolstojani, ma anche il fiero
epos abchaso degli indomiti guerrieri
nart. È tutta una vita che Iskander mette insieme opposti inconciliabili: i monti del villaggio da cui è partita la sua famiglia con il mare trafficato di Suchum, la città dove è nato e ha vissuto infanzia e giovinezza e che nella sua prosa chiama Muchus; il calore esuberante del Sud caucasico e il rigore introverso del Nord russo; il senso inalienabile del propria indipendenza e le ineludibili regole sovietiche; la grande tradizione letteraria russa con la sua passione etica e le saghe di un popolo perennemente in lotta per la sopravvivenza; la scrittura ricca di citazioni letterarie e la viva voce dei racconti nel cortile. Scrittura e cortile risuonano delle voci, dei rumori domestici, profumano di caffè, dei riti comuni e delle liti che separano. È il cortile la dimensione normale della piccola società descritta da Iskander. La casa che si chiude è l'anormalità e il cortile è un'arca di Noè dai più diversi apporti: greci, persiani, georgiani di montagna, ebrei georgiani, abcasi, ebrei di Crimea, ebrei odessiti, russi, armeni dai denti bianchi e gli occhi di carbone: torre di Babele dove tutti mischiano con naturalezza la propria lingua e le proprie usanze con quelle del vicino. Muchus-Suchum e il mondo intero sono solo il prolungamento di quel cortile. E allora chiacchiera lo scrittore che leggiamo nella succosa traduzione di Emanuela Guercetti. Chiacchiere oziose, appunto, di cui si traveste la passione per la vita multiforme e imprevedibile; la passione per l'intelligenza che coglie con arguzia questa vita, ingaggiando un vero e proprio corpo a corpo per forzarne i misteri; la passione per il cuore che sa sempre dove trovare un compare o un parente a cui aprirsi e chiedere aiuto. Nelle intenzioni dell'autore
L'energia della vergogna è un valzer, un leggero volteggio, libero ma non casuale, tra i ricordi di un bambino che racconta il suo diventar grande negli anni trenta del Novecento in una periferia sovietica. Emerge un'Abcasia paese dell'anima e dell'infanzia, paese immaginario e insieme perfettamente riconoscibile, in cui scorre lento un tempo incantato, dove le zie che ti portano al cinema hanno sempre trentacinque anni e tu, finché non ti scoprono, sei sempre il primo della classe. Il tempo della memoria e del ricordo è lontano dalle convenzioni e dalle formalità, non è registrato dai quadranti degli orologi che il piccolo eroe fatica a leggere e cerca di sostituire con la concretezza del sole che si ritira o del suggerimento di un passante. Allo stesso modo, le notizie non si esauriscono nelle pagine scritte del giornale ma dilagano nell'ampia spianata del mare che prima o poi manderà a raccontarle qualche viaggiatore venuto da lontano. Il narratore si avvantaggia di una doppia prospettiva: lo sguardo del bambino che vive, impara a conoscere il mondo e ne dà il proprio giudizio appassionato e incuriosito e, lontano, in filigrana, quello dell'adulto che ha certo un altro approccio, ma, proprio grazie a quel mondo infantile custodito con cura dentro di sé, può conservare la capacità di vedere il bello e il cordiale tepore di cui è soffusa la maggioranza dei rapporti umani. L'infanzia segna il tempo della fiducia nel mondo. Ma qui l'Abcasia del ricordo non è un'utopia sterilizzata, non è un non-luogo idealizzato. Il sangue e il dolore della storia entrano prepotenti nel cortile dell'infanzia e i bambini imparano ben presto a seguirne con apprensione le tracce. Il tran tran quotidiano dei personaggi che affollano i racconti di Iskander deve continuamente fare i conti con la feroce complessità dello stalinismo. Lo avvertiamo nel caffè-pasticceria perso da Alichan, ridotto a vendere caldarroste ai passeggeri delle navi in transito, lo riconosciamo nella paura della nonna quando lo zio Samad ubriaco discute della Nep sulle scale (ma il dramma è come smorzato dallo stralunato comportamento dello zio Kolja mandato dalla nonna a mettere in riga le intemperanze di Samad), o quando la gente sparisce, quando arrestano lo zio preferito e la bicicletta da lui regalata viene venduta a un vicino. Lo sentiamo in tutte le "cose terribili" che piovono sul piccolo mondo del cortile, nella ferita del padre, deportato perché di origine persiana e mai tornato indietro. Contro "le cose terribili" Iskander affila la sua arma preferita, un riso bonario, tutta una gamma che va dal sorriso alla sghignazzata: un colpo di reni che sa trarre energia dalla situazione più dolorosa o imbarazzante, che sa rendere la vergogna un momento di riscatto, il richiamo a un senso etico interiore, trasmesso di generazione in generazione e che nel tradimento, in tutte le sue sfumature, riconosce la colpa più grave di cui un essere umano possa macchiarsi. Maria Candida Ghidini