"Il letto nel frattempo non era solo un letto. Era tutto. Ci giocavamo, ci picchiavamo, ci mangiavamo, ci piangevamo, ci facevamo tutto, tranne quello che ci avrei fatto con una certa regolarità anni e anni dopo. Nel letto inoltre ci nascondevamo, soprattutto quando alla sera mia madre cominciava con le scenate di gelosia, mio padre cominciava a bere ed entrambi cominciavano a urlare". Il paesaggio di questo romanzo è un letto. Sì, la geografia è più mobile e vasta di un materasso, il protagonista si muove con disinvoltura in luoghi diversi del planisfero, ma qui lo spazio che davvero conta è il letto. Just a gigolò, finalista del Premio Calvino nel 2013, con un tono scanzonato, presta voce a un professionista del sesso: a metà tra confessione e esibizionismo, l'uomo che dice "io" si narra e si mostra; le frasi veloci, gli ampi spazi bianchi danno alla narrazione una struttura da racconto per tessere. Lui ci mette lussuria, voracità, ci mette anche rabbia, sfoghi fra isterici e lirici. Un po' l'autore sembra fare il verso alle saghe sadomaso: le signore "ricche e svalvolate" a cui tiene compagnia finiscono per comporre un campionario sociale sull'orlo del grottesco. Ma il sesso non era una cosa seria? Anche. D'altra parte, quando serve, D'Urso descrive i gesti del sesso con cura, mai troppo minuziosa, ma diciamo così, attenta all'essenziale. Sembra che gli stia più a cuore vedere appunto un cuore, prima di un clitoride, o cercare la connessione fra l'uno e l'altro, riavvolgere una storia, un pezzo di vita. La più piccola delle perversioni ha sempre, a monte o a valle, una corposa e confusa mole di sentimenti, di passato, o (come dicono quando si passa dai letti ai lettini) di "traumi". Oltretutto, il gigolò di D'Urso, gira e rigira, va a sbattere contro il tema eterno e puro, l'amore, cerca di interrogarsi in proposito, di capire se lo conosce e se l'ha riconosciuto: "Vabbè, lo ammetto, una volta mi è parso non solo di riconoscerlo, ma addirittura di conoscerlo l'amore. Avevo quindici anni ed è stato quando ho sorpreso mia sorella che si guardava allo specchio. Era già smagrita, pallida, non aveva neanche vent'anni e già si faceva. Si guardava, prima da un lato, poi dall'altro, faceva strane facce e ho sentito di amarla. Indossava un vestito piuttosto scollato e si era perfino truccata, ulteriori indizi che riconducevano a un destino tragico". Fa il cinicone, ma come tutti i veri cinici ha una vocazione da hombre sentimental. Il sesso, D'Urso lo sa, è un buon cannocchiale per vedere dell'altro, per tirare fuori dalle persone il peggio e il meglio, per farne una radiografia: e spesso, più che la voglia di vita, viene fuori la disperazione. C'è un tenerissimo squallore nella scena della contessa sessantenne che a Ibiza dice al gigolò:"Sei cool", gli domanda se vuole prima cenare o scopare (alla fine va così: "Ceniamo, scopiamo e guardiamo la televisione"). Questo romanzo procede a scosse, a sussulti, è un po' come una storia fatta di orgasmi, che non durano mai più di tanto; di orgasmi e soprattutto della tristezza che sempre li segue e spesso li precede. "Ritengo di aver fatto un buon lavoro, pulito e preciso, un po' come quello dei killer in giacca e cravatta e dagli occhiali scuri che si intravedono in certi film. Anche se nel mio caso è impossibile uccidere i morti" dice l'io narrante e in effetti ha o vuole aver l'aria di uno che si lava le mani in fretta. D'altra parte (e non vale solo per i gigolò!) meglio che le donne non si affezionino troppo: "Rimaniamo un po' così, ma in me si fa strada un disagio. Vorrei essere da solo, vorrei che si alzasse e se ne andasse, con lo stesso splendido sorriso con cui è entrata". Si diverte perfino a essere giudicato come il "solito uomo stronzo", purché non sia considerato stronzo "come tutti gli altri", questo no. Ciascuno lo è a suo modo, e lui all'unicità ci tiene. E quando si trova a ragionare, verso il finale, su una figlia possibile, a pensare al nome che potrebbe darle, a gesti paterni, forse significa che sta cambiando? No, cambiare rispetto a che? Era una possibilità che aveva dentro, un'altra inesplorata possibilità di essere. Quel "just" del titolo e della canzone, così, diventano molto meno netti, molto più problematici. Nessuno è solo una cosa, siamo tutti più complessi degli abiti, dei ruoli, delle definizioni. I libri ce lo ricordano, e ci spiegano perché. Paolo di Paolo
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