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Meritato vincitore del Premio Goncourt 2012, il romanzo dello scrittore di origine corsa è l'esempio migliore di quanto la recente letteratura francese, lasciata alle spalle la stagione del nouveu roman, sia in grado di coniugare un messaggio profondo (in questo caso, vista la formazione dell'autore, di stampo filosofico, sulla rovina e la creazione dei mondi in un'alternanza di vicende e passioni che giocano con il destino degli uomini) e una godibilissima creatività letteraria; notevoli, in questo senso, passaggi fulminanti come la successione di infelici che ne combinano di tutti i colori nell'avviare il bar che risulterà poi centrale nel giocare un ruolo nelle vicende del protagonista Matthieu, o il drammatico (doppio) finale del libro. E attorno al protagonista ruotano come satelliti l'infelice sorella Amélie, vittima di un odio più grande di lei, il nonno Marcel, disilluso nell'aver passato la vita ad inseguire un sogno che tale si è rivelato, fino all'amico del cuore Libero, che raffigura il messaggio che Ferrari ci ha voluto lasciare: quello che noi cerchiamo non siamo in grado di riconoscerlo quando lo abbiamo trovato, e prima di trovarlo non abbiamo idea di ciò che in realtà cerchiamo.
Un pò deludente. Atmosfera cupa con il verbo di Sant'Agostino (sulla cui opera probabilmente il filosofo-scrittore Jerome Ferrari ha realizzato la propria tesi di laurea), incentrato sulla fine del mondo, inevitabile, permea ogni capitolo del romanzo. La trama è tutto sommato banale, tuttavia ben sorretta da una prosa avvincente grazie al suo ritmo ben dosato tra l'affannoso della percezione del dolore morale e fisico e il lineare della cruda realtà dove molto spesso i sentimenti lasciano spazio al materialismo fino a sconfinare nel ribrezzo. Il finale è degno del miglior romanzo noir, ma dal filosofo Ferrari mi aspettavo qualcosa di più.
Mi ha convinto solo in parte. Le storie che si intrecciano nel romanzo potevano essere, secondo me, maggiormente sviluppate.
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