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Dopo aver letto questo libro non si può più tornare a mangiare carne a cuor leggero
Nonostante io sia vegetariana da diversi anni non avevo mai approfondito in questo modo il tema degli allevamenti intensivi a livello etico, concentrandomi piuttosto su quello ambientale e di consumo massivo delle risorse. Questo libro ha colmato molte mie lacune, e anche se tendenzialmente rimane di parte dà voce a diversi punti di vista, non per forza in favore del vegetarianesimo. Manca qualche riflessione su temi per me d'interesse ma nel complesso è un testo valido e d'impatto.
Il protagonista e sua nonna. E poi la domanda di rito: hai mangiato abbastanza? Mi sono sentita come l’io narrante. Anche a me mia nonna faceva questa domanda. Gli spunti di riflessione che ci sono nel testo mi hanno fatto pensare. Ora guarderò al mondo in modo completamente diverso da prima.
Recensioni
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Le ultime quindici pagine di Molto forte, incredibilmente vicino (2005; Guanda, 2005), il secondo e per il momento ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer, non contengono del testo, ma una serie di istantanee di un corpo in caduta libera dal World Trade Center: una sequenza di fotogrammi che, sfogliati velocemente, riportano il corpo verso l'alto, come un filmato che si riavvolge bloccando le immagini nel tempo, permettendo di contemplarle e nello stesso tempo sconfessandone la natura pressoché insostenibile. Una sorta di onirico happy end visivo con cui l'autore ci inchioda a quanto avvenuto a New York l'11 settembre 2001, ci emoziona e intanto in qualche modo ci anestetizza. In quelle quindici pagine c'è, in tutta la sua controvertibilità, una ben determinata concezione della letteratura.
Foer, si sa, è bravo a suscitare reazioni forti. Molti (sopratutto fra i lettori) lo amano alla follia, alcuni (sopratutto fra i critici) lo disprezzano e non ne fanno mistero. I suoi due romanzi Ogni cosa è illuminata (2002; Guanda, 2002) e Molto forte, incredibilmente vicino affrontano temi come le persecuzioni contro gli ebrei e l'attentato alle Torri gemelle con una scrittura carica di humour ma anche di trepidazione, semplice ma anche intricata, leggera ma anche ponderosa, divertente ma anche commovente. Una scrittura che somiglia a un gioco di prestigio, come quel corpo a mezz'aria che invece di cadere verso il basso risale verso l'alto.
In questo suo terzo libro, Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (azzeccata traduzione del più secco titolo originale Eating Animals), si ritrova quella voce acrobatica e intensa, ma qui la ponderosità ha decisamente la meglio sulla leggerezza. "Non si scherza su questo e non ci si gira dall'altra parte", dice a un certo punto l'autore parlando delle tecniche di macellazione. Non si scherza e non ci si gira dall'altra parte, pare voler dire Foer, perché, diversamente dall'Olocausto o dal terrorismo, gli orrori dell'industria zootecnica non sono ancora sedimentati nella coscienza collettiva. Anche se "sappiamo più di quanto ci interessi ammettere", confiniamo tale consapevolezza "nei recessi più bui e nascosti della nostra memoria". Ogni volta che addentiamo un pezzo di carne abbiamo la vaga sensazione che ci sia qualcosa che non va, ma è una sensazione che per lo più ci affrettiamo a rimuovere, pur di continuare a masticare in pace. Come scrive Derrida citato da Foer, "Gli uomini fanno tutto ciò che possono per nascondere o per nascondersi questa crudeltà, per organizzare su scala mondiale l'oblio o il disconoscimento di tale violenza".
Come contrastare allora tale oblio, tale disconoscimento? Per Foer reso sensibile all'argomento dalla nascita di un figlio e dal conseguente desiderio di capire nel modo più concreto possibile "che cos'è la carne" prima di decidere se darla o meno da mangiare al suo bambino si tratta di rendere visibile quel che l'apparato industriale e governativo cerca in ogni modo di mantenere invisibile, si tratta di scavalcare i reticolati di filo spinato che isolano gli allevamenti dal mondo circostante, forzare le porte chiuse a chiave dei macelli, raccontare le cose come stanno trovando strategie retoriche capaci di scuotere l'indifferenza dei consumatori, nella certezza che "tutte le persone ragionevoli si troverebbero d'accordo, se avessero accesso alla verità".
Forte di questo presupposto, l'autore parte dalla rievocazione della figura della nonna, ebrea di origine ucraina sopravvissuta per un soffio alla persecuzione e poi emigrata in America, descrivendo il suo rapporto con il cibo, il rapporto con il cibo di una persona che nella sua giovinezza aveva patito la fame fin quasi a morirne, ma che durante la fuga dai nazisti, pur avendone avuta l'occasione, si era rifiutata di mangiare carne di maiale, perché "se niente importa, non c'è niente da salvare". Una lezione con cui il nipote scrittore sente di doversi confrontare. Ripensando alla nonna, Foer chiede ai suoi lettori se, vivendo "in una nazione dalla prosperità senza precedenti, una nazione che spende per il cibo una frazione di reddito minore di qualunque altra civiltà della storia umana", paia loro un così gran sacrificio rinunciare alla carne di produzione industriale con tutte le sue innumerevoli controindicazioni, controindicazioni che il libro illustra con passione e con competenza (più di sessanta pagine di note rendono testimonianza alla meticolosità del lavoro di ricerca).
"Noi non facciamo male ai membri della nostra famiglia. Non facciamo male agli amici o agli estranei. Non maltrattiamo neppure i mobili imbottiti", continua Foer, perché allora accettiamo di buon grado che gli animali vengano maltrattati e uccisi con tanta efferata crudeltà? Se noi americani siamo così probi come pensiamo di essere, insiste, perché abbiamo messo in piedi un sistema di produzione del cibo così efferato e pernicioso? E perché non facciamo niente per smantellarlo? Si tratta di un ostinato appello alla ragionevolezza che risuona come una nota di fondo in tutte le pagine del libro, e che si fonda sul presupposto della fondamentale inconciliabilità fra ciò che è e ciò che dovrebbe e potrebbe essere. Non a caso Foer, dopo aver passato in rassegna i molteplici mali dell'allevamento intensivo e aver prospettato le alternative possibili, chiude con un capitolo dedicato alla festa del Ringraziamento, trionfo dei buoni sentimenti e dei valori americani e nello stesso tempo trionfo dell'industria della carne. La proposta dell'autore, ovviamente, è festeggiare il Ringraziamento senza mangiare il tacchino, dal momento che "la scelta di non mangiare il tacchino sarebbe un modo più sentito per celebrare la nostra gratitudine". E, immaginando un mondo postcarnivoro, Foer conclude: "Siamo noi quelli a cui chiederanno a buon diritto: 'Tu che cos'hai fatto quando hai saputo la verità sugli animali che mangiavi?'".
È una domanda che ne riporta alla mente altre, ed è un momento chiave del libro, il momento in cui il retroterra familiare dell'autore, la sua assiduità con la memoria storica dell'Olocausto e la battaglia etica contro l'industria della carne vengono a coincidere nel modo più evidente, benché Foer si guardi bene dall'azzardare un qualunque paragone fra allevamenti intensivi e campi di concentramento.
È significativo che tale indecoroso paragone compaia invece con grande rilevanza in una delle pochissime altre opere letterarie contemporanee che trattino dell'industria della carne, La vita degli animali di J. M. Coetzee (1999; Adelphi, 2000). In queste conferenze in forma di racconto tenute alla Princeton University nel 1997-98 e poi pubblicate in volume, Coetzee attribuisce a un personaggio di finzione, la scrittrice Elizabeth Costello, due discorsi in cui lo sfruttamento degli animali viene definito "un'impresa di degradazione, crudeltà e sterminio che può rivaleggiare con ciò di cui è stato capace il Terzo Reich". Contestata e accusata di antisemitismo, nonché di "bestemmia", la scrittrice non recede dalla propria posizione, arrivando addirittura a spiegare così il proprio disagio nel trovarsi ospite di persone che mangiano carne: "È come se andassi a trovare degli amici, e dopo che ho fatto un'osservazione gentile sulla lampada che hanno in salotto, loro dicessero: 'Sì, è bella vero? È in pelle di ebrea polacca; secondo noi è la migliore, la pelle delle vergini ebree polacche'. Poi vado in bagno e sull'involto di una saponetta c'è scritto: 'Treblinka 100% stearato umano'. Sto forse sognando?, mi chiedo. Che razza di casa è mai questa?".
Nell'ostinazione alla bestemmia da parte della protagonista di Coetzee c'è un'idea della natura umana radicalmente diversa da quella che emerge dalle considerazioni sempre condivisibili ed equilibrate dell'autore di Se niente importa. Per Coetzee gli esseri umani non sono, alla stregua dei commensali di Foer alla tavola del Ringraziamento, un po' pigri ed egoisti, ma fondamentalmente buoni. Sono invece irredimibili complici di "un crimine di proporzioni stupefacenti", un crimine che nelle sue pagine finisce per identificarsi con la vita stessa.
Così, se Foer dopo aver denunciato una terribile sfilza di nefandezze e aver fornito dati agghiaccianti può malgrado tutto rassicurarci con la consolante visione di un mondo futuro redento dalla consapevolezza, Coetzee dopo aver accuratamente evitato di enumerare "il lungo elenco di orrori che punteggia la vita e la morte" degli animali ci lascia invece con l'immagine di una Elizabeth Costello incapace di conciliarsi con i suoi simili e in lacrime fra le braccia del figlio: "Lui accosta, spegne il motore, prende sua madre tra le braccia. Inspira l'odore di crema idratante, di pelle vecchia. 'Su, su' le sussurra in un orecchio. 'Su, su. Tra poco passa'".
Tuttavia, l'effetto prodotto da queste due opposte strategie non è affatto scontato. Foer pare non avere dubbi sull'efficacia della sua operazione. È come se dicesse al lettore: io con la mia scrittura ti ho fatto vedere quel che non avevi mai potuto vedere. Ora sai la verità, dunque agirai di conseguenza. Ma il lettore lo farà? Pare lecito dubitarne. Coetzee sembra al contrario alquanto perplesso, come se in fondo non sapesse che farne dei tormenti e delle sfuriate di Elizabeth Costello. Eppure, alla fine, forse è proprio lui a condurci davvero a "seguire fianco a fianco la bestia sospinta lungo la rampa che conduce al suo carnefice".
Norman Gobetti
Potete essere vegetariani convinti o, al contrario, strenui sostenitori del consumo di carne: questo libro avrà comunque molto da dirvi. Non è infatti un manifesto del vegetarianesimo, ma un'indagine dettagliata e rigorosa sulla carne animale, la sua produzione e il suo consumo. Da dove viene la carne che finisce sui nostri piatti? Com'è prodotta? Come sono trattati gli animali e in che misura è importante? Quali effetti ha mangiare gli animali sul piano economico, sociale e ambientale? Jonathan Safran Foer, autore di culto diventato famoso con il suo romanzo d'esordio Ogni cosa è illuminata, parte da queste domande per compiere una riflessione appassionata su un tema che definisce a ragione «spinoso, frustrante e di grande risonanza», perché va a toccare tasti delicati come l'etica personale e dell'intera società, l'economia globale, le tradizioni più antiche, la nostra salute e quella dei nostri figli. Confermando la sua vocazione di narratore, il giovane scrittore americano sceglie di raccontarci tutto in un libro che è frutto di una grande quantità di ricerche e ha l'obiettività di un lavoro giornalistico, ma è anche una storia e come tale è stato concepito e realizzato. Una storia in cui trovano posto i ricordi dell'infanzia (dove la celeberrima madeleine proustiana cede il posto al pollo con le carote cucinato dalla nonna); campeggiano i dubbi e i sentimenti destati dalla recente paternità («Nutrire mio figlio non è come nutrire me stesso: è più importate»); si affollano le riflessioni sul rapporto tra uomini e animali (spassoso il racconto del colpo di fulmine per la bastardina George adottata dall'autore). A questi si alternano i resoconti delle incursioni notturne negli allevamenti intensivi di polli e nei macelli industriali, le indagini sull'inquinamento causato dallo smaltimento delle deiezioni suine e bovine, le inquietanti scoperte sulle massicce dosi di antibiotici e ormoni somministrati agli animali allevati in batteria e le nefaste conseguenze sulla salute dei consumatori.
Il successo della carne prodotta industrialmente è garantito, secondo Foer, dal fatto che nessuno, eccetto gli addetti ai lavori, ha modo di vedere in quali condizioni siano realmente allevati i capi di bestiame. Se coloro che consumano abitualmente il frutto della moderna industria zootecnica potessero constatare con i propri occhi i modi di vita innaturali e disumani a cui sono costretti i loro futuri pasti, difficilmente continuerebbero a consumarli a cuor leggero. La produzione intensiva ha aumentato la disponibilità di cibo, per tutti e a bassi costi, ma siamo davvero certi che questo sia sufficiente a giustificare i maltrattamenti di milioni di polli, vacche e maiali e i rischi alla salute a cui sottoponiamo il nostro fisico? Chi sostiene questo sistema perverso, che fa sì che quasi un terzo delle terre emerse del pianeta sia destinato al bestiame, che la gabbia standard di una gallina ovaiola sia più piccola di un foglio A4, che l'allevamento degli animali sia la causa numero uno del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici, evidentemente ritiene che il fine giustifichi i mezzi. Davvero "niente importa", pur di salvaguardare interessi economici e soddisfazione della gola? Non ci sono alternative possibili? In fondo le statistiche ci dicono che il consumo di carne nei paesi occidentali è sproporzionato rispetto ad altri tipi di alimenti (gli americani scelgono di mangiare meno dello 0,25% del cibo commestibile conosciuto del pianeta) e che anche il ben calibrato consumo di prodotti di origine vegetale fornisce una quantità di proteine sufficiente al nostro fabbisogno. Inoltre come non considerare le implicazioni etiche delle nostre scelte: «Per quanto oscuriamo o ignoriamo questo fatto ci ricorda Foer, che insieme alla moglie ha sposato la causa vegetariana, sappiamo che l'allevamento intensivo è inumano nel senso più profondo del termine. E sappiamo che la vita che creiamo per gli esseri viventi più in nostro potere ha un'importanza profonda. La nostra reazione all'allevamento intensivo è in definitiva un test su come reagiamo all'inerme, al più remoto, al senza voce.»
Questo libro, che è insieme racconto, inchiesta e testimonianza, ci invita con determinazione e con passione a riflettere e a non accettare passivamente le regole del mercato. Non ci fornisce una soluzione, ma dati oggettivi e spunti su cui ragionare, per farci un'idea della situazione e affrontarla ciascuno secondo le proprie esigenze, i propri valori e le proprie convinzioni personali.
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