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L'estenuante altalenarsi di sentenze giudiziarie per la strage di Bologna (ottantacinque morti) rientra nel consueto train de vie di certi processi italiani. Secondo Andrea Colombo, collaboratore di "Liberazione", Mambro e Fioravanti, pur apparendo senza complici, mandanti e movente, furono ritenuti, dopo una serie di depistaggi firmati P2, il "capro espiatorio ideale" della mattanza, i cui effetti furono peraltro politicamente nulli. Il processo venne portato avanti in "un'ottica che sarebbe troppo nobile definire da guerra civile", tralasciando il possibile ruolo dei servizi segreti deviati, dei palestinesi o della Libia, nell'anno di Ustica e dell'accordo Italia-Malta, firmato proprio il 2 agosto 1980, che danneggiava la Libia stessa: ipotesi, queste, forse ancor più dietrologiche, ma tutto sommato legittime, in un paese come il nostro. In effetti, i pluriomicidi "pistoleri dei Nar", verso la metà del 1980, convinti della necessità di ripulire la destra dalle sue scorie, oltre che dell'impossibilità di conquistare il potere nello stato, avevano ormai già sciolto il movimento, dichiarando di voler solo più procedere a vendette contro giudici, poliziotti ed ex contigui, in linea con la tendenza di Valerio Fioravanti, sorta di anarchico di destra deciso a liquidare l'eredità storica del neofascismo italiano; né lui né Francesca Mambro si sentivano infatti "fascisti", piuttosto "anti-antifascisti". Colombo dimostra l'inconsistenza del "teorema-Amato" (dal nome del giudice poi assassinato), secondo cui i terroristi di destra sarebbero stati all'epoca mossi da un'unica cupola, mentre ritiene la pista seguita dal giudice Salvini l'unica ragionevole fra quelle "nazionali": all'origine della strage ci sarebbero stati i neonazisti di Ordine nuovo.
Daniele Rocca
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