"Stiamo solo mettendo in pratica quello che consideriamo ideale per la società, prendendo le nostre decisioni con il voto". Nelle parole del suo protagonista Sócrates de Souza Vieira de Oliveira c'è tutta l'essenza della Democrazia corinthiana, un'esperienza unica di gestione comune di una squadra tra giocatori, dirigenti e staff. Avvenuta tra il 1982 e il 1985, la democracia divenne presto anche un fenomeno politico nazionale, quando ancora in Brasile vigeva il regime militare. La storia raccontata da Solange Cavalcante ha tutti gli ingredienti per affascinare un pubblico che va ben oltre quello degli amanti del calcio. La vicenda sportiva si incrocia efficacemente con la lotta per la democrazia di un paese in cui la passione calcistica incontra quella politica e quella civile. Il volume alterna con un buon ritmo pagine di storia calcistica, politica e sociale, che risultano così facilmente accessibili a un pubblico di non addetti ai lavori. Come in tutte le storie di successo non mancano gli eroi, di cui si raccontano la forza e le contraddizioni, le imprese epiche e i fallimenti. Ma non per questo il racconto di Cavalcante può essere ridotto alla narrazione di una leggenda o ad una apologia militante e acritica di un'esperienza trasformata in mito da migliaia di tifosi e non solo. Al centro del volume è la storia della Democrazia corinthiana, che nasce a San Paolo in una delle realtà calcistiche che gode di maggior seguito in Brasile il Corinthians appunto e che da sempre incarna l'entusiasmo e la sofferenza con cui il futebol è vissuto in questo paese. Qui, all'inizio degli anni ottanta incrociano i loro destini alcuni personaggi atipici per il mondo del calcio. Tra questi Wladimir, terzino, sindacalista e di colore; Adílson Monteiro Alves, direttore sportivo con nessuna esperienza di calcio, sociologo e oppositore del regime; Walter Casagrande, giovane talento entusiasta e ribelle; ma soprattutto il doutor Sócrates, medico, attivista e poeta dotato di qualità tecniche fuori dal comune. Attorno a lui prenderà forma un nuovo modello di gestione della società, in cui tutto, dagli ingaggi alla formazione, viene discusso e votato in un consesso paritario. La democracia difendeva i diritti dei giocatori, si batteva per la riduzione dei differenziali salariali, promuoveva un modello di calcio non paternalista e non autoritario, centrato sul gioco come forma espressiva secondo il motto "libertà con responsabilità". Ma l'esperimento di Sócrates e compagni fu molto di più. Nonostante le critiche ricevute dalla stampa di regime e talvolta dagli stessi tifosi, che mettevano al centro non solo le posizioni politiche, ma le abitudini non proprio professionali dei calciatori, la Democrazia corinthiana si affermò a suon di discorsi, goal e titoli nazionali, per diventare un fenomeno politico di rilevanza assoluta. I giocatori cominciarono a sfidare il regime inneggiando al voto e alla democrazia, e sfruttando la loro visibilità mediatica fecero dello stadio la loro tribuna politica. La storia della democracia è innanzitutto la storia di una lotta per i diritti dei lavoratori, che non è facile comprendere avendo in mente gli ingaggi miliardari dei calciatori di oggi. La storia del calcio brasiliano, tuttavia, ci riporta a uno scenario ben diverso. Nonostante il futebol fosse considerato una religione civile già da inizio secolo, le condizioni dei giocatori, spesso anche dei più importanti, non rispecchiavano la loro fama e notorietà. Molto spesso i salari non erano neppure sufficienti a coprire le spese di vitto e alloggio, e la sopravvivenza dei giocatori dipendeva dai bichos, i premi partita. Per questo nessuno poteva sottrarsi a ritmi elevatissimi che gravavano duramente sul fisico e, conseguentemente, sulla durata delle carriere dei giocatori. Questo meccanismo salariale alimentava il potere delle società, rafforzato anche dal vincolo di proprietà che escludeva i giocatori da qualsiasi decisione in merito alle loro cessioni e trasferimenti. In un simile scenario dirigenti e funzionari dei club, i cosiddetti cartolas (cappelli a cilindro), disponevano dei giocatori a loro piacimento, spesso utilizzandoli per i propri scopi politici e alimentando quel paternalismo che proprio dalla Democrazia corinthiana sarà superato. Celebre è il caso di Mané Garrincha, eroe del brasile campione del mondo, ingaggiato per pochi mesi proprio dal Corinthians nella fase calante della sua carriera per sostenere la campagna elettorale di uno dei suo dirigenti, che trascorse gran parte del suo tempo in comizi elettorale piuttosto che sul campo. Garrincha fu ceduto poco dopo le elezioni, quando una relazione extraconiugale con una cantante (per di più di colore e con simpatie di sinistra) lo resero inadatto ad essere un simbolo, e finirà i suoi giorni all'estero, dove si rifugerà per sfuggire alle rappresaglie del regime militare. Nel Corinthians di Sócrates i rapporti tra capitale e lavoro sono al centro di una discussione dalla forte carica politica e ideologica, se è vero che in un'intervista lo stesso capitano affermò che "ciò che serve al calcio del Corinthians e non solo del Corinthians né unicamente al calcio è accorciare le distanze tra padrone e impiegato". Ma la storia della Democrazia corinthiana è soprattutto la storia di una battaglia contro un regime, forse meno noto di altri regimi sanguinari in Sudamerica, ma non per questo meno crudele, che dal 1964 alla fine degli anni ottanta governò il paese. Iniziata forse con scarsa consapevolezza (interessanti in proposito le pagine in cui si narrano le incomprensioni con il sindacato del futuro presidente Lula) l'attività politica dei Corinthians crebbe insieme a quell'esperienza di autogestione. La democrazia interna divenne manifesto politico, stampata come uno stemma sulle divise dei giocatori, e la politica si intrecciò con lo sport a tal punto che nella finale del campionato la squadra entrò in campo con uno striscione che recitava "vincere o perdere, ma sempre con democrazia". La squadra vinse, e quelle immagini fecero il giro del mondo. Il calcio, fino a quel momento strumento delle classi agiate tanto da far scomodare in più occasioni la nota definizione di "oppio dei popoli", divenne terreno di lotta e affermazione dei diritti, attraverso il pugno alzato con cui Sócrates esultava ad ogni goal. Ma la battaglia contro il regime toccò il suo apice nella campagna per il sostegno all'emendamento che mirava a reintrodurre l'elezione diretta del premier. In quell'occasione è celebre il passaggio in cui Sócrates, il cui trasferimento in Italia era da tempo nell'aria, giura a una folla di duecentomila persone che non avrebbe lasciato il paese in caso di vittoria. L'emendamento non passò. Sócrates si trasferì in Italia per una breve e sfortunata avventura alla Fiorentina, in un calcio italiano che mal si adattava a chi salutò il trasferimento con entusiasmo per l'opportunità che gli avrebbe offerto di poter leggere Gramsci in lingua originale. I protagonisti della democracia furono a poco a poco ceduti e tutto tornò alla normalità. Di li a pochi mesi anche l'ultimo dei generali al potere si dimise e una nuova fase si aprì per il paese. Cosa resta, dunque, dell'esperienza della Democriazia corinthiana? Nella narrazione lucida delle sue molte contraddizioni e del suo epilogo, e nella saudade che affiora inevitabile, l'autrice non manca di cogliere la natura effimera di una stagione di cui (a detta degli stessi protagonisti di allora) sembra non rimanere traccia, e la cui reale portata rivoluzionaria rimane un nodo da sciogliere. Ma è innegabile, questa la posizione dell'autrice, che la Democrazia corinthiana sia stata un sogno e una speranza per molti in un momento difficile della storia politica e sociale del Barsile e non solo, e come tale ci viene raccontata. Non a caso il racconto si chiude proprio con un sogno del suo protagonista in punto di morte. Il sogno, recitano le ultime parole del libro, "di una partita estenuante ma felice. Una partita che non finiva mai". Una partita politica e culturale giocata con la forza e la leggerezza con cui si calcia un pallone. Sandro Busso
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