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Converrà tornare, per comprendere a fondo questa singolare e per certi versi sorprendente prova poetica di Antonio Prete, a quel suo libro di seducente densità saggistica che è Prosodia della natura; e in particolare a due delle zone tematiche sulle quali è costruito, rispettivamente Jardin des Plantes e Lo sguardo animale. Questi due orizzonti sui quali la "fisica poetica" si va a disporre sono rappresentati, talvolta in maniera decisamente intensiva, in questo libro di versi. All'interno del quale, se il termine "albero" ricorre una trentina di volte, la somma delle designazioni specifiche e generiche, nonché degli enunciati metonimici afferenti alla famiglia arborea, raggiunge un'altezza ben più elevata e per nulla casuale.
Si tratta senza dubbio di un sintomo (spitzerianamente) vistoso, che non è lecito trascurare senza correre il rischio di perdere le tracce di uno dei sensi complessi del libro. E qualcosa di simile, anche se in quantità statisticamente più contenute, è possibile dedurre dalla situazione dello sguardo animale e dalla sua relazione con l'"aperto": "Negli occhi dell'animale l'aperto / scheggiato di dolore". E altrove Prete ha scritto: "Lo sguardo animale: uno specchio in cui si riflettono l'intimo e l'aperto, l'illimitato e l'intatto". Si è così vistosamente ricondotti alla VIII duinese di Rilke, e con essa alla nozione di "aperto" (das Offene) che l'autore praghese assume come luogo della proiezione di una libertà d'esperienza sottratta alla pedagogia coercitiva della retroversione, della ri/flessione: luogo sostanziale dell'innocenza dunque. Lungo questa direzione Prete scende al cuore di una delle questioni più delicate del "pensiero poetante" novecentesco: a differenza di quello dell'animale, "il nostro sguardo riflette non l'Aperto, ma il mondo"; semmai è la coscienza (più o meno oscura) della separazione dall'origine a costituirsi come ponte fraterno nel dolore tra individuo e animale.
Quanto alla fisica poetica degli alberi, mi pare che qui essa sia distribuita su una serie di effetti di slittamento: man mano che l'autore abbandona il termine generico e si addentra nella designazione delle specie, si fa luce una sorta di nostos (nostalgia: altra nozione a lui cara e attentamente indagata), di segnaletica dell'origine appunto, che è già definita in partenza dall'oggetto-titolo del libro, menhir. Lo spazio del ritorno, così come viene definito qui, dispone di coordinate geometriche elementari e contemporaneamente è immerso nella condizione, in sé priva di spazio, della luce; si tratta di un oggetto arcaico e rituale, di un templum indefinibile che oscilla tra funzionalità e sacralità, forse traccia dell'evento con cui l'essere umano affidò al momento rituale una progettualità mnemonica collettiva. Dunque la fisica degli alberi viene spesso ricondotta a questo paesaggio salentino tanto sobriamente quanto saldamente antropizzato: l'albero "spunta, s'innalza, si schiude, si dispiega, conquista tutte le forme del cambiamento, muove non da un luogo a un altro, ma muove sé da sé
" (ancora dalla Prosodia; e ora, in verso: "È bagnato dal risveglio il silenzio della terra. / Un sibilo, una voce, sale dal cuore dell'albero. / A mezzogiorno la luce di biacca / si dissipa facendosi celeste").
C'è in questo libro un sistema di segni che tende a chiudersi in un percorso e che, come tale, esclude categoricamente tanto la dimensione autobiografica quanto l'investimento sperimentale sul linguaggio. Lingua dei fondamenti, questa di Prete, fermamente rivolta alle ragioni del vuoto, dell'interrogazione che quel vuoto legittima, dell'infinito, dell'origine ("quei soli sono scagliati come semi"): sono indici di una situazione cosmogonica, di un delirio precosmico che accompagna la nascita, vero punto iniziale al cui fondo si incontrerà quella dissoluzione dell'universo descritta da Leopardi nel finale del Cantico del gallo silvestre. E sembrano, la fase cosmogonica e quella della dissoluzione, dimensioni speculari reciprocamente necessarie. Forse per questo la pronuncia linguistica del libro è severamente confidenziale, dotata anche di una felice disponibilità ad attivare l'asse metonimico e a costituire in questo modo una rete di informazioni collaterali, di contiguità, di planimetrie orizzontali e solidali dell'esperienza. Mi sembra appunto che la severità astrattiva dei fondamenti non escluda questo aspetto della produzione materiale del senso.
E c'è infine nel libro la convocazione di un cenacolo. I poeti esplicitati dall'autore per opera di d'après o di traduzione, per atto di dedica anche implicito costituiscono una cordata piuttosto esemplare: tra i più significativi Rilke, Celan, Hölderlin, Stevens, Bonnefoy, Jabès, Char, Bachmann, il Salmista e naturalmente Leopardi. Sono tra coloro che, più e meglio di tutti, hanno fatto in qualche modo i conti con la finitudine e con le forme della sua dicibilità, dall'apertura di senso che essa sprigiona, all'esperienza del nulla che impone di considerare.
Giorgio Luzzi
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