“Mi sono posto al lavoro per scrivere questo libro e ho avvicinato le sedie ai miei due tavoli. Due tavoli! Sì; intorno a me ogni oggetto è in doppio esemplare: due tavoli, due sedie, due penne”. Comincia così il celebre saggio La natura del mondo fisico, dello scienziato e divulgatore inglese Arthur Eddington. I due tavoli di cui egli parla sono, l’uno, il tavolo familiare, quello dell’esperienza quotidiana, l’altro, il tavolo scientifico, quello descritto dalla fisica atomica. Il primo è impenetrabile e sostanziale, il secondo è in gran parte vuoto. Quando il libro di Eddington compare, nel 1928, non è trascorso molto tempo dalla scoperta che gli atomi di cui è fatta tutta la materia consistono in un nucleo piccolissimo attorno a cui ruotano degli elettroni puntiformi, e sono quindi essenzialmente vuoti. La fisica (questo il messaggio di Eddington) contraddice in modo clamoroso la percezione ordinaria del mondo: ciò che tocchiamo e che ci appare consistente e solido è in realtà evanescente.
In quegli stessi anni, sfide ancora più profonde al senso comune vengono lanciate dalle nuove teorie fisiche. La relatività ristretta mostra che lo spazio e il tempo sono indissolubilmente legati e che non esiste un tempo assoluto uguale per tutti, bensì un’infinità di tempi, diversi da osservatore a osservatore. Con la relatività generale si scopre che lo spazio-tempo non è piatto, ma curvo, e che la gravità è nient’altro che questa curvatura. La meccanica quantistica, infine, indica l’esistenza di una granularità intrinseca nella materia e nella radiazione, entrambe costituite da quanti discreti e localizzati di energia.
Possiamo dire insomma che le rivoluzioni scientifiche del Novecento ci hanno insegnato, come recita il titolo del libro di Rovelli, che la realtà non è come ci appare (né come i fisici del passato ritenevano che fosse). Molto efficacemente Rovelli sceglie di raccontare questa storia, fino agli sviluppi più recenti, seguendo un filo conduttore ontologico, cioè mostrando come le varie teorie rispondono alla domanda: “di che cosa è fatto il mondo?”
Secondo la relatività ristretta, il mondo è fatto di uno spazio-tempo che funge da scenario fisso per tutti gli eventi, e di entità fisiche (particelle e campi) che lo popolano. La relatività generale cambia un po’ gli ingredienti, facendo dello spazio-tempo non più uno sfondo rigido, ma (l’espressione è di Einstein) un “gigantesco mollusco flessibile”, cioè un campo dinamico che interagisce con le particelle e con gli altri campi, e può di conseguenza modificarsi (incurvarsi, storcersi, oscillare). Dalla combinazione tra la relatività ristretta e la meccanica quantistica nasce, a metà del secolo scorso, la teoria quantistica dei campi, per la quale il mondo è fatto di campi quantizzati che vivono in uno spazio-tempo rigido e i cui quanti sono le particelle elementari che conosciamo.
In questo processo di evoluzione del pensiero fisico si notano due tendenze: da una parte, l’approfondirsi del divario tra realtà e apparenza, o per meglio dire tra l’immagine del mondo che ci fornisce la scienza e quella che nasce dall’intuizione diretta e dal senso comune, dall’altra, una semplificazione del catalogo dell’universo, con l’eliminazione di alcuni tradizionali dualismi (spazio/tempo, particelle/campi). Ma il processo è incompleto, perché manca quella che potremmo chiamare la “grande sintesi”, cioè una teoria che incorpori in maniera piena e coerente la meccanica quantistica e la relatività generale. Una buona candidata in tal senso è la cosiddetta “gravità quantistica a loop” (i loop sono linee chiuse nello spazio), elaborata nel corso degli ultimi decenni da un gruppo di fisici teorici, tra i quali, in primissima fila, lo stesso Rovelli.
Alcuni aspetti dell’ontologia e della visione del mondo fisico di questa teoria (cui è dedicata la seconda parte del libro) possono essere intuiti semplicemente traendo le estreme conseguenze dalla meccanica quantistica e dalla relatività generale. È quello che fece nel 1936 un giovane fisico teorico russo, Matvei Bronštejn (condannato a morte due anni dopo da un tribunale staliniano e fucilato), il quale si rese conto che l’idea dello spazio come un continuo infinitamente divisibile non poteva reggere. Se, come stabilisce la meccanica quantistica, per esplorare regioni di spazio sempre più piccole occorrono energie sempre più alte, e se d’altra parte, in accordo con la relatività generale, all’aumentare della densità di energia lo spazio si incurva sempre di più, in regioni spaziali infinitamente piccole la curvatura diventerebbe infinita e queste regioni verrebbero risucchiate in una singolarità senza fondo. Deve quindi esserci un limite alla divisibilità dello spazio, che possiamo stimare combinando opportunamente le costanti fondamentali della natura: troviamo così un numero, chiamato “lunghezza di Planck”, che vale un milionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di centimetro, una lunghezza straordinariamente piccola, ma diversa da zero.
Dopo i lavori di Bronštejn (che rimasero largamente ignorati), il più importante passo avanti sulla strada della grande sintesi fu compiuto negli anni sessanta, quando due fisici americani, John Wheeler e Bryce DeWitt, scrissero un’equazione quantistica per lo spazio. Così come la funzione d’onda quantistica di una particella fornisce la probabilità di trovare quella particella in una posizione piuttosto che in un’altra, la funzione d’onda di Wheeler-DeWitt fornisce la probabilità di osservare uno spazio curvo piuttosto che un altro. Lo spazio, quindi, si comporta come un’entità dinamica, nello spirito della relatività generale, e viene trattato secondo i dettami della meccanica quantistica.
La gravità quantistica a loop nasce da queste (e altre) idee pionieristiche e le sviluppa, dando loro una veste matematica compiuta. L’immagine del mondo che ne viene fuori è a dir poco stupefacente. Innanzi tutto, gli enti fisici fondamentali sono di un solo tipo: campi quantistici “covarianti”, che non vivono nello spazio (come nella teoria quantistica dei campi) ma, per così dire, su stessi. Lo spazio che osserviamo è una manifestazione di uno di questi campi (quello gravitazionale) e va immaginato (ammesso che si riesca) come un pullulare fluttuante di quanti di gravità che agiscono l’uno sull’altro. E il tempo? La risposta, sbalorditiva, è che il tempo non esiste, nel senso che non esiste qualcosa che, scorrendo, segnala il cambiamento: le cose non cambiano nel tempo, ma in relazione l’una all’altra. Occorre dunque rinunciare (scrive Rovelli) all’idea che spazio e tempo siano “strutture generali entro cui inquadrare il mondo. Spazio e tempo sono approssimazioni che emergono a larga scala”.
Ci sono evidenze empiriche a sostegno di questo scenario? Il problema è che la gravità è una forza straordinariamente debole e, di conseguenza, la dinamica quantistica dello spazio (che coincide, come si è detto, con il campo gravitazionale) si manifesta solo in situazioni estreme e inaccessibili: l’universo subito dopo il Big Bang o l’interno dei buchi neri. Le predizioni della gravità quantistica a loop sono quindi difficili da sottoporre a controllo diretto, anche se, per esempio, il fatto che la teoria sia in grado di spiegare in modo naturale uno dei fenomeni più misteriosi dei buchi neri, la loro evaporazione per emissione di radiazione termica (un’importante scoperta di Stephen Hawking), depone certamente a suo favore. Meno decisivi, e più discutibili epistemologicamente, sono altri argomenti addotti da Rovelli: gli argomenti di coerenza – la teoria dei loop è concettualmente coerente con la relatività generale e con la meccanica quantistica – o in negativo – alcune delle predizioni delle teorie alternative (in particolare, della teoria delle stringhe) non sono state finora verificate. Come lo stesso Rovelli precisa, la gravità quantistica a loop è “nella sua infanzia” e deve ancora superare gli esami cruciali. A meno di non essere degli empiristi duri e puri, però, questo carattere congetturale della teoria nulla toglie al fascino delle nuove idee sullo spazio e sul tempo che essa propone.
Vincenzo Barone