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Anno edizione: 2018
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Nonostante il libro abbia un sapore dilettantesco e le ripetizioni siano talmente tante e tali da far venire il dubbio che sia stato riletto prima di pubblicarlo, l'intento è pregevole e la spinta ad arrivare fino in fondo, comunque, non si esaurisce. Ogni tanto si perde il filo; in più di settecento pagine è facile che accada ma è anche facile riprenderlo accettando l'invito di Mendelssohn di seguirlo nella sua epica ricerca giornalistico/accademica di sei suoi congiunti scomparsi fra le fauci della shoah; la storia della superfluamente lunga, eccessivamente lenta ma paziente, minuziosa ricerca di sei su sei milioni. "[...] qualcosa può essere salvato, se solo, di fronte all'immensità dell'esistenza, qualcuno deciderà di guardarsi indietro, di dare un'ultima occhiata, di cercare tra le rovine del passato per recuperare il possibile incurante di ciò che è andato perduto." Ho spesso riflettuto sull'irrefrenabile impulso e passione che spinge molti, scrittori e non, prima che non ci sia più nessuno a cui chiedere, a ripercorrere e ricomporre pervicacemente la storia della propria famiglia per metterla nero su bianco e consegnarla ai posteri. Al di là dell'istintiva curiosità sul - 'Da dove vengo?' -, sono convinta che molta parte ce l'abbia anche la comprensibile esigenza di permanenza di un futuro - 'Io sono stato' - nella mente di qualcuno.
Non è un romanzo, non è un saggio; è un'opera poderosa di grandissima efficacia. Le 700 pagine scorrono con fluidità, nonostante la tematica non consenta certo un tono "lieve".
Il più bel libro che abbia mai letto! Stupendo! Storia avvincente, tiene incollati fino alla fine. Letto d'un fiato.
Recensioni
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Non spaventi l'intricato albero genealogico che apre lo splendido, ammaliante, voluminoso libro di Daniel Mendelsohn (Long Island, 1960), ebreo americano di terza generazione che nel mezzo del cammin di sua vita decide di recuperare dall'oblio la memoria del prozio materno Shmiel Jaeger, annientato con la moglie e le quattro figlie durante l'occupazione nazista del paesino polacco di Bolechow, ora in terra ucraina.
L'impianto familiare, le correlazioni, le memorie intime, che ammantano la prima parte del libro e danno testimonianza delle motivazioni personali dell'autore, nel corso delle pagine si stemperano, sostituite dal determinato peregrinare di Mendelsohn che dall'Ucraina agli Stati Uniti, dall'Australia a Israele, da Vienna alla Danimarca, spesso in compagnia dei fratelli, va cercando testimoni diretti delle Atkionen naziste (e ucraine) che tra il 1942 e il 1943 avevano praticamente cancellato la presenza ebraica nel paese d'origine.
Mendelsohn, in maniera non dissimile da quanto ha fatto Lanzmann nel suo Shoah, interroga i sopravvissuti, con ma grande partecipazione emotiva, sempre silenziosamente confrontando i nuovi dati che apprende con la conoscenza pregressa dei fatti. A tutti pone la medesima domanda: "Vi ricordate di Shmiel e della sua famiglia?". La moltitudine di risposte, a volte reticenti, spesso imprevedibili, ricostruisce il tessuto familiare e, con esso, il destino di una comunità prima annientata e poi (nei suoi rari superstiti) dispersa ai quattro angoli del mondo. Memorabili, a questo proposito le scene ambientate a Sidney e in Israele dove l'ambiente assolato salotti lucidi e luminosi, soprammobili immacolati e tersi si amalgama perfettamente con il racconto straziante della violenza e della bestialità dei tempi di guerra.
Fin qui il libro, vincitore tra l'altro del Prix Mèdicis nel 2007 e finalista al prossimo Adei-Wizo italiano, non si discosta da analoghe prove letterarie sull'argomento. Mendelsohn, in più, vi aggiunge corposi inserti della Torah, ne secolarizza l'insegnamento, accostandolo alle vicende storiche e individuali. Ma soprattutto, quel che rende Gli scomparsi, a mio avviso, testo unico e paradigmatico, è l'analisi che emerge dai caratteri dei testimoni, più che dalle testimonianze che questi rendono durante l'indagine e il ruolo che, pagina dopo pagina, assume l'investigatore, così coinvolto emotivamente. I testimoni, agli occhi e alle orecchie di Mendelsohn, raccontano non soltanto le distanti vicende di Bolechow, ma anche il loro essersene allontanati, salvo a dovervi ritornare, per rispondere alle domande discrete ma inflessibili dello scrittore.
Di non minore rilevanza, anzi direi quasi essenziali nella riuscita del libro, sono lo stile di Mendelsohn, le sue qualità superbe di letterato, la padronanza che dimostra nelle strutture affabulatorie e la costruzione a spirale del periodare che spesso sembra avvolgersi su se stesso, avvitarsi per scendere in profondità, trascinando il lettore in questo soltanto apparente divagare dall'assunto. A quel punto il lettore partecipa attivamente all'indagine, si domanda la ragione delle infinite variabili suggerite dall'autore e ne trova l'assunto, ne valuta la necessità e la pertinenza arrivando anch'egli a porre il sasso su quella pietra tombale di corpi privati di sepoltura che il libro finisce, laicamente, per essere. Filippo Tuena
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