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Ritratti italiani - Alberto Arbasino - copertina
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Ritratti italiani

Descrizione


"Dalla A di Gianni Agnelli alla Z di Federico Zeri, alcune decine di conversazioni, interviste, dialoghi, e magari anche chiacchiere, con illustri contemporanei quali Roberto Longhi, Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Cesare Brandi, Federico Fellini, Luciano Anceschi, Luchino Visconti, Alberto Moravia. E notevolissimi coetanei, o quasi - da Calvino e Testori e Pasolini, a Parise e Manganelli e Berio -, coi quali ci si ripromettevano lunghe polemiche anziane davanti a un bel camino acceso, con vino rosso e castagne e magari cognac. Invece, la storia girò diversamente. E così, oltre ad alcuni coetanei vitali e viventi, eccoci qui con care e bizzarre memorie evidentemente prenatali: Dossi, Tessa, Puccini, D'Annunzio, e la mia concittadina vogherese Carolina Invernizio, nonna o bisnonna di mezza Italia letteraria." (Alberto Arbasino)
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Dettagli

2014
11 giugno 2014
552 p., Brossura
9788845928826

Valutazioni e recensioni

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fiume95
Recensioni: 5/5

Il libro contiene un centinaio di ritratti letterari di personaggi della cultura, dell’industria e della politica italiana. La maggior parte di questi sono frutto di consuete frequentazioni soprattutto romane tra salotti, premi letterari, caffè; altri sono incontri professionali per farne un’intervista o un articolo di giornale. Altri ancora sono del tutto immaginari. Lo stile è quello raffinatissimo del Segretario Vogherese, velenoso, affettato, lievemente censorio, ma con quel profumo di vecchia signora che prende un tè da Babington con le amiche. Una prosa elegante, sottile, a quasi sempre non immediata. Fulminanti i ritratti di Gianni Agnelli e Giorgio de Chirico. Libro assolutamente consigliato.

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Domenico
Recensioni: 4/5

Vastissimo materiale umano e sociale che fotografa un’epoca storica di interesse estremo per me. L’Italia che si libera dalle macerie polverose della guerra e diventa borghese operaia intenta a sprovincializzarsi e a diffondere benessere, quest’Italia vista attraverso ritratti dei suoi esponenti più celebri. Almeno secondo il metro di Arbasino. Una cosa che mi piace tantissimo. Purtroppo Arbasino non è Montanelli. Gli manca la sintesi seppure graffi parecchio. Sembra che voglia imitare, nella forma e nel linguaggio, il miglior Gadda (la più convincente imitazione permanente dello stile di Gadda è di un altro sommo lombardo: il rimpianto e defunto Gianni Brera). Ma per scrivere difficile come Gadda bisogna essere Gadda, altrimenti son dolori per chi legge; e non basta la sterminata cultura che pur il erudito Arbasino possiede in dosi eccedenti. Così alla fine i contorni del ritratto vengono fuori con grande fatica tutta a carico del povero lettore, però secondo me merita la fatica e leggendolo scoprirete il perché.

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Carlo
Recensioni: 4/5

Una galleria notevole, Arbasino rievoca illustri personaggi del mondo della cultura italiana novecentesca (con qualche pennellata ottocentesca, essendo presenti Verdi e Dossi, scomparsi ai primi del ‘900). Come evidenziato dal precedente recensore, alcuni “ritratti” sono effettivamente poco accessibili a chi non abbia fatto parte del milieu artistico e culturale frequentato dall’Autore o non ne conosca la storia alla perfezione, risultando quindi di ostica lettura. Detto questo, nel complesso ritengo ugualmente più che meritevole il libro, sia perché oltre ai suddetti “profili ermetici” (generalmente abbastanza brevi) ve ne sono numerosi accessibili a chiunque, maggiormente sviluppati e di grande interesse (su tutti segnalo quelli riguardanti Fellini, Flaiano, Pasolini, Praz, Testori e Zeri) sia per lo stile elegante, i gustosi aneddoti e le infinite curiosità letterarie, musicali, teatrali disseminate tra le 550 pagine dell’opera.

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Voce della critica

  Appena invade la letteratura con due padri folli come Bouvard e Pécuchet, il rassicurante ordine alfabetico si rivela inquietante e ben poco affidabile. Arbasino lo confermava circa mezzo secolo fa nelle prose di Certi romanzi, tra il ricordo di Gustave Flaubert e la lettura di Hugh Kenner: i moderni compilano spericolate enciclopedie come alternative consapevoli ai sensi unici della narrazione ben fatta, alle parole d'ordine del romanzo (mimesis, vita, edificazione), e alle sue resistenze verso tutto ciò che non lo riguarda. Sulla stessa linea enciclopedica Arbasino ha già allineato lemmi in vari luoghi per prolungare, a suo modo, un piccolo "filone insubrico" tutto nostrano, avviato dall'Historia del comasco Plinio, passato attraversoCarlo Dossi ed Emilio Gadda: si andava nelle lontane Sessanta posizioni dalla A di Adorno alla W di Wilson; e nel Deposito cartacce dei Paesaggi italiani con zombi dalla A di "abbigliamento" alla Z di "zombi", appunto. Come le precedenti, anche quest'ultima enciclopedia italiana procede con la stessa logica elusiva e divagante. Contraddicendo in pieno le regole basilari del genere (penso a Diderot, che per l'Encyclopédie si raccomandava di non andare oltre gli "attributi essenziali" delle voci), tra "Gianni Agnelli" e "Federico Zeri" entra infatti veramente di tutto: i ritratti letterari veri e propri sono per lo più uno sfondo su cui tratteggiare resoconti di epoche mitiche e di prime memorabili, letture passate, discorsi sui costumi degli italiani in toni leopardiani, boutades e conversazioni, spunti saggistici e inusuali confidenze autobiografiche, precedute dalle immancabili scuse. Così, il ritratto di Gae Aulenti è anche una lezione sullo spirito del design milanese e romano, quello di Giosetta Fioroni anche un ricordo della scandalosa Carmen bolognese del 1967, e così via. D'altra parte, nessuna delle voci è un vero ritratto, anche perché nessuno dei personaggi è mai veramente solo sulla scena, nemmeno quando assume la sua posa inconfondibile: né lo sfondo è mai generico o neutro come poteva esserlo nelle Sessanta posizioni, dove ciò che contava era il modello, il suo volto e la sua presenza ferma nell'atelier letterario di Arbasino. Ciò che viene ricostruito e rappresentatonei Ritratti è piuttosto la forma di un rapporto: è ciò che si ottiene affiancando tutti i personaggi al profilo dell'immutabile bel paese, come in un doppio ritratto in cui l'Italia diventa la consorte bruttina o la madre invadente che siede accanto, con cui non è possibile non avere a che fare. Solo in quest'ottica i Ritratti di Arbasino si precisano e possono essere messi meglio a fuoco: sono assai più vicini ai Paesaggi italiani che alle Posizioni, perché nascono dallo stesso sguardo rassegnato e divertito sulle meschinità e i vari ritardi della penisola. A mano libera e con negligenza da saggista (che aggira la diligenza del romanzo ben fatto e del puro studio sociologico), Arbasino tratteggia una sua personale galleria di agonisti culturali. Sono tutti, almeno in partenza, vittime potenziali o reali della loro italianità, ma molti diventano idoli, e forse eroi, quando sopravvivono anche splendidamente al rapporto quotidiano e soffocante con quella consorte e quella madre: Gabriele D'Annunzio, "povero imaginifico", che "si trova a operare in una Italietta meschinissima che sta offrendo il peggio di se stessa", Antonio Delfini, da rivalutare assolutamente "pensando alla vita di uno come lui in un paese che si chiama Italia", Mario Praz, che è proprio "uno straniero in patria", Giorgio De Chirico, che dopo Monaco e Parigi sconta nell'impoverimento della sua pittura "gli effetti di dieci anni di bel paese". Il titolo, dunque, non deve ingannare: Arbasino allestisce una galleria di ritratti più antitaliani che italiani, in cui lo sguardo, per focalizzare un volto memorabile, è costretto a fermarsi sul paesaggio desolato che di solito lo circonda. Chi invece volesse contemplare un ritratto veramente italiano di Arbasino, legga del poeta Arcangelo Elvezio Bustini, in Fratelli d'Italia: un giovane vate che fino a un certo punto coltiva un "finissimo gusto asburgico" e ritorna sui sessanta a essere italiano, diventando "corsivo, journalese, finto-disinvolto e tutto-fare", prontissimo alle recensioni interessate e alla "vicinanza dei potenti".   Daniele Santero  

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La recensione di IBS

“Non fate pettegolezzi”, lasciò scritto Pavese prima di suicidarsi.
Un precetto che Alberto Arbasino sembra aver voluto sistematicamente disattendere, nella sua ormai cinquantennale carriera di scrittore. Per fortuna, nostra e sua, verrebbe da aggiungere, e con buona pace del grande scrittore piemontese.
Con infaticabile zelo e senso dell’umorismo Alberto Arbasino ha infatti composto nel tempo uno zibaldone di osservazioni e ricordi che s’intreccia a doppio filo con la storia del sistema culturale e del milieu che attorno a quel sistema gravità. Nel corso degli ultimi cinquant’anni tutti i protagonisti della letteratura e dell’arte sono passati sotto la lente ad alta definizione di questo cronista dal passo ormai classico, i cui ritratti potremmo idealmente collocare nelle nostre librerie accanto alle “Vite” di Vasari o, con un’ironica sprezzatura che a lui forse non dispiacerebbe, a Plutarco.
Ma le vite raccontate da Arbasino non sono quasi mai parallele; somigliano piuttosto a corsi d’acqua, affluenti di uno stesso fiume, che convergano lentamente, fino a confondersi in un punto preciso, che spesso coincide con brevissime, efficaci epifanie. Un gesto, un tic, un lapsus: è in questi “scarti” che il nostro coglie al meglio l’essenza dei suoi osservati speciali, e spesso nelle istantanee di Arbasino ci par di riuscire a percepire quello che Roland Barthes chiamava “punctum”. L’aspetto emotivo, cioè, che trascende.
Quello che Adelphi manda nelle librerie oggi con Ritratti italiani è un tassello importante della bibliografia arbasiniana, presentando una galleria eterogenea di numi tutelari dell’Italia dal secondo dopoguerra in avanti. È un’Italia – va detto – per la quale non si può non provare una certa nostalgia, tanto appare evidente la sproporzione fra gli italiani che sono chiamati a rappresentarla e un’immaginaria, analoga operazione che fosse ambientata solo ai giorni nostri. Gadda, Longhi, Cecchi, Calvino, Soldati, Eco, Einaudi, Pasolini e tantissimi altri sono osservati con partecipe ironia, ma mai con sarcasmo.
Sembra quasi di vedere Arbasino prendere appunti sui loro tic, in un angolo, leggermente discosto, con un sorriso mai beffardo o irridente; un sorriso del quale sa metterci a parte, per cercare una complicità col lettore che è forse la vera, più autentica cifra del suo stile.
Le debolezze di questi arcani maggiori, artisti, scrittori, politici e personaggi pubblici sono disvelate con una bonomia e un gusto per l’aneddoto che spesso sconfina nel pettegolezzo; ma qui la parola va intesa nella sua accezione più bella, quasi settecentesca, e – pur avendo Arbasino inventato la proverbiale figura della casalinga di Voghera – mai provinciale.

A cura di Wuz.it

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Conosci l'autore

Alberto Arbasino

1930, Voghera

Alberto Arbasino è stato narratore e saggista eclettico. Ha dato nei suoi scritti, da Le piccole vacanze (1957) a Fratelli d'Italia – del quale ha pubblicato tre differenti stesure (1963, 1976, 1993) – a Mekong (1994), un ritratto caustico e impietoso della società italiana del secondo Novecento. Assertore della 'gita a Chiasso' come antidoto al provincialismo culturale italiano ereditato dal fascismo, fu tra i sostenitori del Gruppo 63.Eccentrico, colto e curioso cronista della realtà sociale e culturale degli anni Sessanta e Settanta, ne lasciò un vivo ritratto nelle prime opere, che tendono a una giocosa mescolanza di generi letterari: dalle impressioni di vita fermate nelle pagine di Parigi o cara (1960), Grazie per le magnifiche rose (1965), Sessanta...

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