Il Capitale nel XXI secolo è un libro che potrebbe avere un notevole impatto sul modo di pensare degli economisti, ammesso che abbiano la pazienza di leggerlo e capirlo fino in fondo. Peccato che sia un tomo di novecento pagine, di lettura molto difficile, zeppo di ripetizioni che fanno girare la testa e perdere il filo. Il disegno complessivo del libro, che ne costituisce la vera forza e originalità, emerge solo dopo i capitoli iniziali, si perde in quelli di mezzo e poi torna a fare capolino verso quelli conclusivi. È quindi molto difficile da recensire perché l'ammirazione per il quadro d'insieme emerge solo dopo la metà del libro, e a volte viene meno per l'irritazione prodotta dalla sensazione che trecento pagine sarebbero state più che sufficienti per trasmettere il messaggio, molto importante, contenuto. Non è piacevole ricomporre una scaletta che cambia continuamente, cosa che non depone a favore della chiarezza del libro e poco utili si rivelano anche la maggior parte delle recensioni, tranne quella magistrale di Paul Krugman sulla "New York Review of Books", che aiuta il lettore proprio a ritrovare quel filo che altrimenti si perde per strada. Gli economisti e gli scienziati sociali hanno da tempo dato per scontato che la fonte principale delle disuguaglianze di reddito siano i differenziali salariali, la cui dinamica mostra evidenti segni di crescenti disparità tra quelli alti e quelli medio-bassi. Piketty mette in discussione questa ipotesi: nel lungo periodo il reddito da capitale è almeno altrettanto importante, e forse ancora più importante di quello da lavoro. Per corroborare queste ipotesi l'autore presenta un'imponente quantità di dati storico-statistici che costituiranno la fonte di ulteriori studi per gli storici dell'economia: per alcuni paesi, Francia in primo luogo, ma anche Inghilterra, Germania e Stati Uniti, alcune serie vengono ricostruite a partire dal 1870. Ma la ricerca storico-statistica va anche molto più indietro, basata su indicazioni provenienti da fonti disparate e sicuramente meno attendibili (comprese le numerose, ma alla fine stucchevoli, citazioni letterarie di Balzac, Jane Austen e Henry James), ma pur sempre interessanti e informative. In particolare Piketty calcola β, rapporto tra valore del capitale e valore del prodotto nazionale, e osserva che mentre dal 1870 fino al 1910 β si mantiene intorno a 7 in Europa e 4,5 negli Stati Uniti (cioè, il capitale europeo valeva 7 volte il prodotto nazionale di un anno); da allora fino agli anni cinquanta si riduce a 3 in Europa mentre si mantiene costante negli Stati Uniti, per poi riprendere a salire lentamente negli Stati Uniti e più rapidamente in Europa fino ai giorni nostri. La caduta di β in Europa è conseguenza delle distruzioni di capitale fisico provocate dalle due guerre. Piketty non si ferma all'analisi storica, e si spinge a prevedere che queste tendenze alla crescita siano destinate a prolungarsi per tutto il XXI secolo fino a raggiungere valori mai toccati prima di allora. E che il rapporto β tra valore del capitale e prodotto nazionale non sarà mai egualmente distribuito tra le classi sociali, ma darà luogo a una sempre maggiore concentrazione del capitale nelle mani dei ricchi, e in particolare del famoso un per cento della popolazione reso popolare da Joseph Stiglitz nel suo libro del 2012. Qui Piketty propone una spiegazione in chiave tutta teorica di questo processo. Secondo una legge fondamentale della dinamica economica (proprio quella da cui prenderà avvio la pessima, secondo Piketty, sintesi neo-classica) il tasso di risparmio
s (e cioè la quota di risparmio sul valore della produzione) è uguale al rapporto β tra valore del capitale e valore del prodotto nazionale, moltiplicato per il tasso di crescita dell'economia nel suo complesso
g (che, di fatto, coincide con il tasso di crescita del prodotto). Questa legge si può scrivere come β
= s/g. Non è difficile supporre che in qualsiasi tipo di società il tasso di risparmio s e il rendimento del capitale r si muovano nella stessa direzione: più è alto il rendimento dei capitali investiti, tanto maggiore sarà la quota di risparmio sul valore della produzione. Il passo successivo è semplice: se s e r si muovono insieme, e se vale r > g - e cioè tanto più alto è il rendimento del capitale r rispetto alla crescita globale dell'economia g, tanto più rapidamente crescerà il rapporto β tra valore del capitale e valore del prodotto. Qui c'è la svolta fondamentale che Piketty imprime alla scienza economica, proponendo un'integrazione della teoria della crescita, sintetizzata dalla relazione β = s/g, con la teoria della distribuzione sussunta nella relazione r > g. Per quanto sorprendente, questa operazione non era mai stata proposta in modo convincente fino ad oggi: e difficilmente gli economisti potranno prescinderne d'ora in avanti. La previsione di lungo periodo di Piketty è basata su ipotesi non necessariamente condivisibili, una delle quali, non detta esplicitamente, è l'assenza di eventi catastrofici, guerre, cambiamenti climatici, ecc. La prima è che negli anni a venire il tasso di crescita dell'economia g si manterrà a livelli molto modesti, non molto diversi da quello attuale (1-1,5 per cento all'anno in termini reali), sia per la bassa dinamica demografica ormai prevalente in quasi tutto il mondo, ma anche per via del progresso tecnologico che andrà attenuandosi dopo gli exploits del XX secolo. La seconda riguarda il rendimento del capitale r che non dovrebbe allontanarsi da 4-5 per cento. I grafici di Piketty che mostrano β possa tornare ai livelli del XIX secolo intorno a 8 nel 2100 sono affascinanti, ma, a mio giudizio, da non prendere troppo sul serio. È qui che si può cominciare a dissentire seriamente da Piketty. In lunghissimo periodo è impensabile che lo stock di capitale e il reddito che viene prodotto ogni anno non procedano grosso modo allo stesso passo. Vi possono essere periodi anche lunghi in cui viene meno questo allineamento (come nei "gloriosi trenta anni" di grande sviluppo economico seguiti al secondo dopoguerra). Ma se da una parte il rendimento dei patrimoni bene amministrati dei ricchi toccherà il 4-5 per cento e anche più, ci saranno dall'altra i patrimoni delle classi medie o medio-basse (almeno 30 per cento della ricchezza totale negli Stati Uniti, 40 per cento in Europa continentale, 50 per cento nei paesi del nord Europa), la cui componente finanziaria difficilmente frutterà molto più dei tassi di interesse pagati dal debito pubblico, mentre quella immobiliare (maggioritaria in molti paesi europei, compresa l'Italia dove raggiunge il 61 per cento del totale delle attività) potrebbe fruttare assai meno. Ad esempio, la Banca d'Italia registra una riduzione della ricchezza complessiva del paese del 9 per cento tra il 2007 e il 2012. E già nel 1993 la Federal Reserve di Minneapolis segnalava un rallentamento della crescita della ricchezza mondiale dal 2,9 per cento annuo tra il 1960 e il 1973 al 1,1 per cento nel periodo 1973-1985, confermando le stime di Maddison relative ai sedici paesi a maggiore industrializzazione. Il dissenso, inoltre, è anche sulla nozione stessa di rendimento del capitale cui fa riferimento Piketty. Il famoso 1 per cento dei super-ricchi oggi è costituito prevalentemente dai grandi manager e Ceo che si fissano stipendi e prebende in modo quasi autonomo rispetto alla performance aziendale, dai gestori finanziari più abili, dai personaggi come Bill Gates, Warren Buffet, ecc., dai grandi magnati petroliferi. A mio parere, qui r > g c'entra poco o niente. Il valore delle azioni di Bill Gates dipende dalla capacità innovativa del suo gruppo; il successo dei gestori finanziari dalla loro abilità di scelta (al rialzo o al ribasso dei titoli su cui operano); le fortune dei magnati petroliferi dal prezzo del grezzo e magari dalla politica di Putin, senza contare l'impatto delle tecnologie verdi. La stessa crescita fisiologica dei grandi patrimoni, che secondo Piketty avviene per effetto di scala, ammesso e non concesso che un effetto di scala esista, è indipendente da r>g. Fermo restando che vi sono grandi patrimoni dilapidati per scelte sbagliate che riguardano esclusivamente il rispettivo patron e non r. Un altro capitolo di notevole interesse riguarda il flusso delle ricchezze ereditate. Sebbene meno grandiose che nel secolo XIX, continuano a essere un importante fattore di disuguaglianza. I dati francesi sono molto evocativi: dalla seconda metà dell'Ottocento a fine secolo la quota dei patrimoni ereditati sul patrimonio complessivo raggiungeva il 90 per cento. Dalla prima guerra mondiale al 1970 si riduce al 50 per cento dei patrimoni privati, per risalire al 70 per cento all'inizio degli anni duemila. Secondo Piketty questa quota potrebbe crescere ancora negli anni a venire per effetto della demografia (bassa fecondità e allungamento della vita). Il flusso successorio in Germania e Regno Unito non sembra avere andamento diverso da quello francese. Anche questo processo concorrerebbe alla concentrazione della ricchezza. Piketty non chiude gli occhi di fronte all'impatto negativo di questa divaricazione sulla distribuzione dei redditi e sul finanziamento dello stato sociale. Un'imposta mondiale progressiva sui patrimoni fornirebbe una risposta adeguata per rimediare alla progressione delle disuguaglianze. Posto che la fattibilità della proposta a livello mondiale è nulla, Piketty si chiede se lo sarebbe a livello europeo e americano. Lungi da me l'idea che un'imposta patrimoniale progressiva sia irragionevole (sono tra i proponenti di una proposta di rilancio dell'economia italiana fondata su una imposta patrimoniale di scopo sulle attività finanziarie, e ricordo qui che un grande liberale come Luigi Einaudi era fautore sia di un'imposta patrimoniale, che della tassazione sulle successioni), credo peraltro che sia sostanzialmente improponibile anche solo a livello della Ue per l'opposizione di molti paesi all'unificazione della politica fiscale europea tout-court. Per concludere resta da notare che Piketty lascia fuori dal suo quadro analitico il mercato del lavoro e il ruolo della regolamentazione che ne ha ampiamente determinato la struttura. Nel libro vi è un capitolo intero che descrive l'andamento delle disuguaglianze salariali in Europa e Stati Uniti e lì, giustamente, si discute il decollo dei superdirigenti come fattore di divergenza della fascia più alta dei redditi. Ma manca del tutto l'aggancio al quadro teorico delineato nel libro. Questo è un problema perché il dualismo del mercato del lavoro, consolidato da un trentennio in quasi tutte le economie occidentali, contribuisce pesantemente ai fattori di divergenza dei redditi ed è divenuto parte integrante di un modello di sviluppo che non è destinato a venire meno negli anni a venire. Peccato che in un libro così importante la distanza tra stile espositivo e contenuti sia così poco invitante a una lettura attenta e alla comprensione che invece merita. Bruno Contini
Leggi di più
Leggi di meno