La morte di mio fratello Abele

Il testo è uno zibaldone di riflessioni, racconti e dialoghi, senza un esplicito filo conduttore. Spesso i singoli segmenti si leggono con interesse, divertono e/o fanno riflettere, ma altrove appaiono astrusi e farciti di allusioni ormai irrecuperabili, malgrado -bisogna dire- una scrittura colta ed esperta che mantiene sempre apprezzabile e godibile il proprio registro formale. L’ideologia sottesa è quella nichilista di un io narrante che si atteggia a sopravvissuto tagliato ormai fuori dal mondo che peggiora inesorabilmente; ed è inquietante e paradossale che tale decadenza non si riferisca tanto agli orrori nazisti che pure l'Autore ha ben conosciuto, ma gli sembri ancora più grave in Europa dopo la caduta del Nazismo. Egli si percepisce come estraneo alle scelte delle società in cui di volta in volta vive: è apolide e apatride e ripudia persino ciò che scrive lui stesso; ma la sua ostinazione a considerarsi il solo profondo e lucido, se a volte convince, altrove appare ambigua e persino banale. Anche l’anti-americanismo con cui giudica l'intero mondo occidentale dopo il 1945 è generico e quindi velleitario, e rischia di riportarsi inconsciamente all’ambiguo cripto-nazismo di un Heidegger. Così egli indica come suoi precipui vissuti negativi sia l’entrata di Hitler nella Vienna entusiasta del 1938, sia il processo di Norimberga del 1945, equiparando assurdamente questi fatti come esempi speculari di un'indottrinamento politico-morale di massa. Ulteriore ambito di frustrazione, è quello affettivo-sessuale, costellato di ossessive frequentazioni di postriboli e prostitute, e da compulsivi rapporti amorosi, bloccati ed effimeri, con donne presto perdute; persino col figlio il rapporto non nasce... E se anche queste dimensioni private sono indagate con scrittura limpida, pulita, mai ammiccante o corriva, la rassegnata abulia del protagonista appare sospesa, non motivata e in fondo (almeno per me) poco comprensibile. Insomma, un'opera riuscita a metà...