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Vincitore del Premio Strega nel 2011, in questo piccolo libro molto interessante l'autore racconta la trasformazione dell'industria tessile italiana. La espone con appassionata cognizione di causa, lui che appartiene ad una famiglia di famosi tessutai pratesi, ma anche con orgoglio e con rabbia. Alcune parti sono proprio bellissime e vi si ritrovano vari sentimenti: lirismo e nostalgia nelle pagine che descrivono l'attuale silenzio della vecchia fabbrica, ritmo incalzante e rassegnato stupore nel capitolo "Subito" e tanto altro ancora. È un volumetto molto istruttivo ma non pesante, abbastanza tecnico ma non difficile. Semmai amaro, perché leggendo la lucida analisi dei segni premonitori non correttamente interpretati e anzi, sembra credere Nesi, volutamente inascoltati per inseguire la chimera di facili guadagni.
Contenuti attuali e condivisibili. La situazione in cui ci troviamo temo che sia persino peggiorata. Quello che non mi è piaciuto è la mancanza di forma: sembra più uno sfogo di uno scrittore che un libro vero e proprio con un inizio e una fine. Per questo voto 3.
Di questo libro mi è piaciuto il tema affrontato e anche il punto di vista sostenuto dall'autore. Forse ciò che non mi è piaciuto è il fatto che Nesi ormai non sia più un'industriale, ma uno scrittore vero e proprio, è questo ciò che fa diventare il libo un'autobiografia eccessivamente "letteraria" e autoreferenziale.
Recensioni
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Posto a sigillo del libro, il titolo dell'ultimo lavoro di Edoardo Nesi (romanzo che tale non vuol essere, come L'età dell'oro, ma che, al contrario, mostra le sue due anime discordi, oscillando tra l'intimo quaderno e l'estimo aziendale), non comprova soltanto il consueto amore di Nesi per la letteratura americana, che lo scrittore conosce "al tatto", come le lane del vecchio magazzino. Dice altresì la sua natura di narratore, il suo non vivere le opere e i giorni, ma lo scrutare, il sapere di preferenza riferire: come Fitzgerald (da lui deriva appunto il titolo: "La storia meravigliosa mia e della mia gente"), osservatore defilato nello scorrere di quegli anni febbrili, in cui tutti i romanzieri dell'America fordista parvero ruote dentate, ma di una dinamicità fuori ingranaggio.
"Leggera e lucida come la seta", quella di Nesi è l'esistenza di un favorito pàis di antichi avi, Temistocle e Omero, concordi fondatori prima e reggitori poi di un Lanificio illustre. La sua gavetta, un sempiterno assistentato. E dunque Storia della mia gente non si sottrae a tale scelta esistenziale, che ne impronta il carattere di analisi sociale, esposta però dall'angolo di chi in società da sempre "si limita" a guardare, non con il piglio di un consumato articolista del "Corsera", ma con il nodo in gola dei perplessi, siano essi Cassandre inascoltate, antivedenti il vespro, siano essi seguaci di una prudenza accorta, che ha da sempre buoni maestri in terra di Toscana: "De' futuri contingenti non v'è scienza" (Guicciardini).
Accanto a modelli e soggetti narrativi d'oltreoceano, Nesi, nel tratteggiare il corso della storia, si avvale di uno strumento comunicativo come il linguaggio cinematografico, ricercando l'attiva complicità del lettore, invitato a vedere fluire il lento procedere dei fatti reso in rapide sequenze, intercalate con dissolvenze ad arte. Ma, anche in questo caso, la lingua del cinema non è solo un mezzo per esporre eventi estrinseci e realtà interiori, è per Nesi, piuttosto, un patrimonio di simboli a cui ricorrere, in questo vaticinio, per palesare i segni di un'immanente decadenza: con una celerità ridicola, quasi da "omini" dei film di Buster Keaton, si muovevano negli anni grassi gli infaticabili pratesi, dall'ultimo operaio al capofabbrica, fino al padrone stesso; questa, la descrizione nei termini di una scrittura da copione; ma perché istituire un'analogia che ci lascia perplessi? (ci saremmo infatti aspettati un più classico rimando al chapliniano "omino" di Tempi moderni). Perché la pallida inespressività di Keaton illustra molto meglio della fidenza di Charlot lo scetticismo dell'osservatore, "buster" in mezzo all'affannoso adoperarsi dei progenitori.
Nell'epos i segni interpretati dai Tiresia di guerra sono tutto; troppi e maldestri invece gli errori commessi dai patentati aruspici, i fautori ossessi della globalità. A tali profezie, ree di avere addormentato le anime, seppure l'industriale Nesi sappia che non v'è pronto rimedio (anche la consolante massima di Richard Ford, "L'economia soccomberà a un atto dell'immaginazione", che fa comunque appello, correggendo le mire di una serenità sessantottina e selenita, a una cultura del fare, non è dallo scrittore assunta come un cachet antalgico), il romanziere Nesi sembra rispondere con la sua arte mantica. E ciò per rimarcarne forse un'esclusiva pertinenza: a chi la realtà la narra e non a chi si arroga il privilegio di viverla e dirigerla.
Tutta l'opera è come scandita da segni premonitori o immagini, a evento concluso, dal forte valore metaforico. Data effettuale, sicuramente, il 7 settembre 2004, il giorno della "resa", su cui il libro si apre, quando l'intera famiglia, rappresentata nei suoi vertici fattivi, si reca dal notaio a sottoscrivere la vendita dell'azienda. Difficile non pensare (anche se Nesi non lo esplicita, confidando in un'intesa con il lettore, la quale scatta invero fin da subito, come ci si accorge che la storia procede appunto per emblemi) a una doppia vigilia, sì quella dell'armistizio nazionale, ma pure quella di una festività tutta locale, il giorno dell'ostensione dal pulpito del duomo della preziosa cintola mariana, in lana fina (debito requisito per approdare in un paese siffatto), rito, come trasfigurato in chiusa del romanzo nell'"ostensione" del "palio" inalberato in piazza Mercatale ("Prato non deve chiudere"), conclama di disfatta di una città intera e bando insieme di resistenza "armata". Tessuto, s'intende, in ottimo scozzese.
Francesca Latini
Premio Strega 2011
«Il rumore di una tessitura ti fa socchiudere gli occhi e sorridere, come quando si corre mentre nevica. Il rumore della tessitura non si ferma mai, ed è il canto più antico della nostra città, e ai bambini pratesi fa da ninnananna.»
Edoardo Nesi, nato nel 1964 e nipote di Temistocle e Omero Nesi, era erede e proprietario del Lanificio T.O. Nesi & Figli SpA, l’azienda tessile della sua famiglia. Nel settembre del 2004, insieme al padre Alvarado e al cugino Alvaro, tutti d’accordo, vendettero la ditta. «Quando cedi un’azienda, – scrive Nesi – vendi anche la sua storia». E in queste pagine, con scrittura agile e appassionata, ce la racconta.
È la storia di una piccola industria tessile italiana divenuta grande, della gente di Prato che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare, del benessere creato da quella attività nella provincia italiana del dopoguerra. Un capitalismo familiare, che aveva una sua moralità, capace di «trasformare gli stracci in buoni tessuti» e «che aveva trasportato tutti, capaci e incapaci, industriali e dipendenti, ben oltre i loro limiti». Anni trascorsi tra telai e viaggi in Germania con la Merceds del padre, tra ordini inviati via telex, grandi produzioni di coperte prima, cappotti loden e paltò velour poi. Quello scelto da Nesi non era un lavoro che facesse un grande effetto alle persone, ma era un mestiere molto redditizio, se fatto bene, con impegno, serietà e rispetto per le persone. E dava da lavorare e da mangiare a molte famiglie toscane della zona. Erano gli anni ’60 e ’70 del successo del distretto del tessile pratese e di tutto il suo indotto. Poi, dall’inizio del 1990, con la globalizzazione dei mercati e la concorrenza cinese, cominciò la lenta e inesorabile crisi, il disfacimento di un sistema industriale.
Nesi, che con i suoi libri si inserisce nella tradizione della letteratura industriale italiana, racconta con struggente malinconia il collasso di quel mondo, come un crudo resoconto, fino alla cessione della ditta: una narrazione sospesa fra il reportage giornalistico e le pagine letterarie. In questo libro troviamo sia la storia di una comunità che quella personale dell’autore: la sua passione per la scrittura, per la letteratura americana e in particolare per Francis Scott Fitgerald e David Foster Wallace, le estati ad Harvard in gioventù, il rapporto con la figlia adolescente, le serate a Forte dei Marmi a guardare i tramonti rossi sulle Alpi apuane. Si assiste così, affascinati da questa prosa avvolgente ed elegante, alla fase terminale della storia della piccola imprenditoria tessile italiana, degli artigiani, di una città intera, sotto i colpi dei prezzi ribassati, imposti dalla stretta ferrea del mercato. In una Prato boccheggiante, si conclude lo sviluppo miracoloso di tante aziende e si chiude un’epoca. Nesi dà voce alla rabbia, agli umori anti-elitari dei piccoli e dei medi imprenditori, molto diffusi nell’Italia di oggi, di coloro che si sono sempre sentiti altra cosa rispetto all’establishment industriale italiano. «Questa è la storia della mia gente - conclude Nesi - non solo degli stracciaroli di Prato, ma di una provincia felice e intelligente, sacrificata alla globalizzazione».
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