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Le sette lettere indirizzate a Ratzinger costituiscono una summa del pensiero di Vannini, e un invito all'approfondimento di temi e verità trascurate, diplomaticamente edulcorate dalla teologia contemporanea. Nella prima sono ribadite le tesi più note del filosofo toscano: il suo richiamo a una riscoperta del ruolo fondamentale dello spirito; la necessità di svuotarsi del proprio sé; il dovere di vivere l'assoluto nel presente; la fede come distacco dal molteplice e dalle opinioni comuni; una diversa concezione di Dio, «privo di ogni attributo, pura luce»; il rifiuto di una Chiesa «che ha imboccato la strada di una credenza esteriore, storica, sociale, scartando quella dell'interiorità, del distacco, del vuoto, senza la quale non v'è spirito». Queste indicazioni di principio vengono riprese anche nelle altre sei lettere, che hanno come argomento l'amore, la grazia e la libertà, la giustizia e la vita eterna. Ma ci sono due lettere, la terza e la sesta, sulla verità della fede e sulla fine delle menzogne, che Vannini scrive con particolare vis polemica in difesa della verità. In entrambe esorta i cristiani a tornare alle radici del messaggio evangelico, a riscoprire la realtà storica di Gesù al di là di ogni falsificazione. Le celebrazioni di Natale e Pasqua vengono giustamente ricondotte nell'alveo di festività pagane legate a ricorrenze stagionali, altre credenze religiose sono bollate come miti consolatori, il persistere di alcuni riti risultano frutto di ataviche superstizioni, le leggende bibliche paiono ricostruzioni menzognere funzionali a scopi politico-sociali. Sono affermazioni forti, addirittura indignate, quelle a cui il rigore intellettuale di Marco Vannini si affida per ribadire la sua condanna di un cristianesimo «tutto appiattito sul sociale...precipitato nella chiacchiera...in templi, immagini, feste, sacrifici e cerimonie» che nulla hanno più a che vedere con il Dio che è da cercare nel profondo di noi, nel dio che noi stessi siamo.
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