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Un libro, no anzi, un'indagine sulle condizioni delle carceri italiane. Dovrebbe essere letto nelle scuole, nelle università, nella politica soprattutto. Un'indagine frastagliata da storie di vita, che vi si incollano addosso, e vi rimangono per giorni. Le storie degli ultimi, dei dimenticati. Ma che non lo sono affatto. Leggetelo perché vi renderà coscienti davanti a ciò che avrebbe bisogno di essere cambiato immediatamente.
iniziare a leggere questo libro è come aprire gli occhi davanti all'ignoto, su un mondo parallelo e sconosciuto che con la forza di queste parole ti annienta e lascia mescolare con stupore intelletto e morale, dinnanzi al valore della vita. è un libro che scuote gli animi, che ti pone domande su come la certezza della pena possa essere certezza di sicurezza sociale e al tempo stesso rieducazione dle condannato. è sempre giusto il carcere? possiamo dire che un uomo,è innocente fino a prova contraria? il legislatore produce sicurezza oppure carceri? lascio a voi le risposte perchè darvi le mie senza aver letto il libro risulterebbero stonate.
Recensioni
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Nel rappresentare la situazione carceraria del nostro paese, in violazione delle leggi, costituzionali e non, che la riguardano, mi veniva da dire che c'erano carceri della resistenza che invece le leggi le pigliavano sul serio e le applicavano. Nel bel libro di Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate, e della giornalista Donatella Stasio, si parla invece, descrivendo la stessa situazione, della rivoluzione in carcere. Il concetto è più o meno lo stesso: ci si confronta sul carcere che ci dovrebbe essere e su quello che c'è: le due carceri si ignorano. Il carcere della realtà interessa buona parte degli istituti italiani, il carcere della resistenza o della rivoluzione esiste o per esperimento, come Bollate, o perchè tollerato finché tutto va bene: in entrambi i casi, si tratta di situazioni precarie, come molte da noi, mentre il carcere della realtà è molto stabile o, diciamo così, a tempo indeterminato.
Il titolo del libro centra quello che accade: un carcere che ha dalla sua la legge si muove sui "diritti", da prendere sul serio e rispettare. Il carcere della realtà, che fa a meno della legge, è fondato sulla discrezionalità di chi ha il potere e per mantenerlo deve dispensare castighi. I diritti, nella rivoluzione di applicare la legge, sono tutti previsti, partendo da quello principale: avere una vita, pur dentro le mura, potersi spostare di giorno dal luogo dove si riposa la notte per recarsi a lavorare o a studiare o a frequentare altri luoghi dell'istituto deputati ad attività sportive, formative o culturali. Le attività organizzate all'interno ci devono essere perché l'istituto non sia un deposito di corpi, come diventa quello della realtà, ma sia un'organizzazione attiva, che impegna molto di più, ma anche molto meglio. C'è poi il rapporto con gli uomini e le donne. Nel carcere della realtà quel rapporto è negato, ridotto a semplici intimazioni e obbedienze. In quello della rivoluzione è "umano", dove questa parola designa sia un rapporto fra esseri umani, sia il fatto che ciò avviene secondo umanità (parola dell'articolo 27 della Costituzione sempre più smarrita, anche fuori dal carcere). L'operatore e il recluso hanno bisogno di capirsi, di dire qualcosa che serva ai rispettivi percorsi dentro il carcere: che lavoro fai, dove vai, con chi stai. Questo è funzionale a quello che la legge penitenziaria dimenticata chiama "individualizzazione del trattamento", ma è funzionale soprattutto al vivere insieme nello stesso luogo, a conoscere da dove veniamo e dove andiamo: destini e quotidianità.
Si tratta di un punto cruciale che è ben colto nel libro. Nel carcere della realtà non ci sono gratificazioni perché perseguire la finalità dell'immobilità e dell'inerzia non può dare gratificazione, ma, solo, l'amara soddisfazione di spegnere vite. A riprova di ciò sta l'alto tasso di assenteismo del personale. E, invece, là dove il lavoro è curiosità, intelligenza, ricerca di contatto, ricostruzione di percorsi di vita all'esterno per i detenuti, l'impegno necessario non stanca e non annoia e, alla fine, gratifica. Penso al destino del direttore di Poggioreale, con il quale ho condiviso una parte importante della mia vita professionale, quando era direttore di Porto Azzurro negli anni significativi che portarono alla legge Gozzini, al suo entusiasmo e alla sua grande capacità di dare praticabilità al carcere, alla speranza che quella legge disegnava. Ora, come riportato nel libro, descrive, con ironia tutta partenopea, la sua attuale condizione di direttore di un ingestibile carcere della realtà. Fra l'altro, aumentando il movimento e l'impegno dei detenuti nei luoghi comuni, viene inevitabilmente meno la necessità degli aspetti capillari della sorveglianza, e il personale, proprio quello di sorveglianza, che non basta mai nel carcere della realtà, è invece sufficiente, anche se il numero dei poliziotti penitenziari resta inferiore alla metà del numero dei detenuti.
Una gestione attiva dei reclusi è dunque più economica di quella del carcere immobile e compresso: non far fare nulla ai detenuti, non farli vivere, richiede molto più personale di quello necessario in un carcere che li faccia lavorare, studiare, vivere. Certo, ci vogliono dirigenti con le qualità di Lucia Castellano per mandare avanti un "esperimento" da cui non si vogliono trarre gli insegnamenti evidenti, già acquisiti. Bollate, come altri istituti che conosco, pochi purtroppo, dimostrano che un altro carcere è possibile, anche quando la realtà del restante sistema, la scelta legislativa e politica che la sostiene, i risultati "oltre il tollerabile" (per riprendere il titolo di "Antigone") che ne seguono, sembrano disegnare il "carcere della disperazione".
Sandro Margara
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