Nel 1997, un giornalista musicale tedesco e un fotografo italiano fanno un viaggio in Calabria per raccontare il fenomeno delle canzoni di malavita e il relativo, diffuso e floridissimo commercio in musicassetta. Il risultato è un reportage pubblicato da “Der Spiegel”, che a sua volta stimola un’etichetta discografica belga, la Pias, a pubblicare tre antologie discografiche dedicate all’argomento. La prima, intitolata Il canto di malavita. La musica della mafia, esce sul mercato internazionale nel 2000, e in pochi anni vende complessivamente 150.000 copie, trasformandosi inevitabilmente in un piccolo caso in virtù delle polemiche che avvolgono l’operazione. La presentazione di questa raccolta di criminal songs è delegata nel libretto del cd a una introduzione firmata dall’etnomusicologo Plastino. Non stupisce, quindi, che proprio l’analisi del contenuto e degli effetti provocati da Il canto di malavita e dalle successive due antologie della Pias occupino gran parte della trattazione di Cosa Nostra Social Club. Tralasciando il titolo ammiccante (il riferimento è al celebre film di Wim Wenders, Buena Vista Social Club, dedicato a un gruppo di anziani musicisti cubani) e volutamente fuorviante (nel libro si parla raramente della mafia siciliana, il focus è sulla ’ndrangheta e in misura minore sulla camorra napoletana), il volume di Plastino è interessante per diversi motivi. Soprattutto ha il merito di affrontare la questione facendo piazza pulita di cliché e superficialità giornalistiche, che purtroppo nel loro insieme hanno impedito un’analisi seria di un fenomeno rubricato semplicemente a spazzatura socialmente pericolosa (in Italia) oppure esaltato in modo altrettanto peregrino e radical-chic utilizzando tutti gli stereotipi possibili sul mafioso e sul fascino romantico del fuorilegge (all’estero).
Con la solidità argomentativa dell’accademico abituato a confrontare le fonti, l’autore parte dalle radici della storia, che affondano nel primo Novecento e nelle ballate popolari sui briganti, in particolare il leggendario Musolino. Dopo aver velocemente accennato alla rappresentazione edulcorata e in alcuni casi inautentica dei canti della mala (i dischi “a tema” di Ornella Vanoni e Claudio Villa), Plastino pone la distinzione che dovrebbe fare da architrave a ogni ragionamento sulla faccenda: quella tra i canti della mafia e i canti sulla mafia. Una dicotomia già individuata da Leonardo Sciascia, nella recensione a un prezioso studio di Antonino Uccello su Carcere e mafia nei canti popolari siciliani su cui Plastino si sofferma. L’eterna domanda che incrocia morale ed estetica: rappresentare i riti, le abitudini e le gesta di un ambiente criminale significa per ciò stesso essere parte di quell’ambiente? La risposta in teoria dovrebbe essere “no”, ma nel caso dei neomelodici napoletani e delle canzoni della (o sulla) ’ndrangheta calabrese i confini della questione sfumano in una inquietante zona grigia. È qui che il saggio arranca e si rinchiude nei confini di una metodologia espositiva dai forti limiti: Plastino ha infatti buon gioco nello smascherare i pregiudizi e la visione generica di giornalisti, politici e commentatori (da Saviano in giù) che hanno stigmatizzato l’operazione della Pias e che vengono con impietosa precisione scrutinati dall’autore. Ma è un modo di procedere tutto per negazione, e i legami (reali o ipotetici) tra la mafia e la musica che ne racconta crimini e costumi rimangono in definitiva inesplorati. Un peccato: se il moralismo preconcetto è poco utile, anche la neutralità avalutativa rischia di sembrare benevola.
Carlo Bordone