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ottimo libro, scritto in maniera divulgativa. Esprime la storia americana del secolo passato e attuale da un punto di vista "liberal", mettendo al centro dell'attenzione le disuguaglianze economiche presenti nella società durante le varie epoche. Riconosce 3 macroperiodi: la "gilded age" prima del 1929 (caratterizzata da grandi disuguaglianze), la "grande compressione" dagli anni '30 ai '70 (periodo di relativa uguaglianza economica dopo l'attuazione delle politiche del new deal), e l'epoca attuale contraddistinta da rinnovate disparità. Interessante anche l'analisi dei giorni nostri e la descrizione dell'ascesa degli ultraconservatori alla guida del partito repubblicano. Tenuto conto che l'autore del libro è un nobel per l'economia, la lettura è consigliata.
Recensioni
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Quando, nell'autunno del 2007, questo libro fu pubblicato negli Stati Uniti, il "New York Times", l'autorevole giornale che ospita ormai da parecchi anni i brillanti editoriali di Paul Krugman e ha fatto di lui un personaggio di notorietà mondiale, ben prima che il comitato Nobel gli assegnasse il premio, decise di farlo recensire non da un economista ma da uno storico dell'America contemporanea, l'altrettanto autorevole professor David M. Kennedy, che insegna a Stanford e ha vinto un premio Pulitzer per un suo libro.
Decisione astuta, che ha consentito al grande giornale di non esser tacciato di piaggeria nei confronti del suo illustre collaboratore e di pubblicare una recensione prevedibilmente brillante, ma altrettanto prevedibilmente assai scettica nei confronti del libro di Krugman. Gli accademici, infatti, come tutti i professionisti, amano assai poco le invasioni di campo da parte di gente di altro mestiere, per quanto illustre possa essa essere. "Sutor, nec ultra crepidam!" ammonivano i romani e "Ofelè fa el to mestè" i milanesi dei tempi di Carlo Porta.
Così David Kennedy: egli rimprovera a Krugman il peccato capitale di aver cercato, per spiegare come sia potuto succedere che negli Stati Uniti si sia operata, a partire dagli anni settanta, una gigantesca redistribuzione del reddito e concentrazione della ricchezza, non cause legate all'economia, ma alla politica e alle istituzioni. Sarebbe inutile spiegare al professor Kennedy che un economista italiano che insegnò per decenni a Cambridge, Piero Sraffa, scrisse un prezioso libro in cui analiticamente giunse alle stesse conclusioni. Quando arrivai a Chicago, nel 1966, nella biblioteca di quella università giacevano ben due copie del libro di Sraffa, ma a quella data, sei anni dopo la pubblicazione, non le aveva mai prese in prestito nessuno.
Le cose non sono migliorate da allora. A dire il vero, nemmeno Krugman segnala la propria conoscenza della teoria sraffiana, ma validamente a questa critica si può obiettare che in un libro destinato al vasto pubblico, che conosce Krugman per i suoi impegnati editoriali e non per i suoi lavori scientifici, non era assolutamente il caso di fare citazioni così specialistiche. E infatti Krugman, nelle note in fondo al volume, cita solo libri e articoli che si riferiscono direttamente al tema che tratta. David Kennedy avrebbe preferito che il ciabattino si occupasse di scarpe e il pasticciere di offelle. Parecchi economisti, invece, che si dicono keynesiani o sraffiani, sono del tutto a proprio agio con le conclusioni di Krugman, così come lo sono, ad esempio, quegli storici (qualcuno ne esiste ancora in Italia) che si richiamano all'insegnamento di Benedetto Croce.
Ma che dice di tanto scandaloso Paul Krugman? Sostiene, come ben sintetizza Kennedy, che nel nostro tempo "i malfattori della megaricchezza hanno trionfato (
) Lo 0,01 per cento degli americani più ricchi sono sette volte più ricchi di quanto erano tre decenni fa, mentre i redditi reali della maggior parte delle famiglie americane sono restati quasi uguali. I grandi managers che un tempo guadagnavano in media 30 volte più del salariato medio negli anni settanta ora si portano a casa più di trecento volte tanto". La plutocrazia americana, sostiene Krugman, "è divenuta abbastanza ricca da potersi comprare un partito", il Partito Repubblicano, naturalmente.
Secondo Krugman, la storia della scalata conservatrice al Partito repubblicano da parte dei radicali di destra, finanziati da un numero ristretto di gente ricchissima, è cominciata alla fine degli anni cinquanta come un fenomeno quasi invisibile, ma non abbastanza da sfuggire all'occhio attento del generale Eisenhower, primo rappresentate della tendenza opposta, quella dei repubblicani post rooseveltiani, che accettavano il New Deal come una conquista dell'intera nazione americana. Essa ha acquistato forza nei due decenni successivi e si è compiuta negli ultimi tre, con apoteosi, e finale sconfitta, nel secolo attuale.
Scopo di questa scalata è stato tentare di mandare indietro l'orologio della storia fino agli anni venti, opportunamente cambiando politica e istituzioni per togliere alla classe media americana la gran parte di quel che aveva ottenuto da Roosevelt a Lyndon Johnson. Come hanno potuto riuscirci, i repubblicani della destra radicale, Krugman lo mostra facendo vedere come i neocons si siano posti l'obiettivo di trasformare i due partiti americani in partiti di classe e partiti regionali. La pietra di volta della loro azione è stato lo svuotare il Partito democratico di tutti gli elettori che fanno parte della classe dei "bianchi poveri" puntando sulla loro avversione verso la desegregazione razziale portata avanti senza ambagi da Truman, Eisenhower, Kennedy e specialmente Lyndon Johnson. Quest'ultimo è citato da Krugman come del tutto consapevole di quel che stava rischiando con la sua politica di integrazione razziale, cioè consegnare il Sud al Partito repubblicano per molti decenni.
Solo chi conosce bene la storia americana può rendersi conto dell'enormità di questo risultato. Il Partito democratico era infatti negli stati della Confederazione il partito interclassista che rappresentava la posizione degli sconfitti della guerra civile. Gli "abbronzati" di quegli stati (così li chiamerebbe il nostro nuovo immarcescibile) votavano infatti, quando, superando ostacoli e minacce, riuscivano a farlo, per i repubblicani, il partito di Abraham Lincoln. Si comprende quindi perché Condoleezza Rice dichiarò, qualche anno fa, che una ragazza nera della sua generazione, che veniva dal Sud, poteva essere solo repubblicana.
Paul Krugman, buon interprete della storia del suo paese, parte proprio dal capovolgimento di questa realtà, ottenuto, a partire dalle decisioni integrazioniste specialmente di Johnson, per mostrare come il colore rosso si sia sostituito all'azzurro nel dipingere gli stati del Sud. Questa è un'altra delle molte cose che confondono gli europei di oggi: il rosso è il colore dei repubblicani (ma lo è anche in Italia, dai tempi di Mazzini e Garibaldi). Malgrado il trionfo di Obama, la situazione si è mantenuta anche nelle recenti elezioni. Esistono però due eccezioni, quella della Virginia e della North Carolina, a indicare che le cose stanno, pur lentamente, cambiando di nuovo, a sud della Mason Dixon Line.
Rifacendosi a un articolo di Alberto Alesina e altri, Krugman non esita poi a sostenere che è il razzismo a spiegare perchè gli Stati Uniti sono rimasti così indietro nella costruzione del Welfare State, pur avendo cominciato, insieme agli altri paesi sviluppati, a edificarne le principali istituzioni, come reazione alla depressione degli anni trenta. In particolare, sarebbe il razzismo a creare consenso contro un'estensione all'intera popolazione americana della copertura sanitaria che esiste negli altri paesi sviluppati e che già copre, molto efficacemente, con il programma Medicare, tutti gli statunitensi che hanno compiuto i sessant'anni.
Il punto forte dell'analisi di Krugman è nel far vedere come le conquiste del New Deal, che portarono a quella che egli chiama "the great compression" dei redditi e della ricchezza, furono ottenute da Roosevelt in pochissimi anni. Fu una vera e propria rivoluzione politica, legale e istituzionale, che creò un'enorme classe media, estesa a moltissimi "colletti blu", operai dell'industria ai quali fu permesso di comprare casa, automobile, elettrodomestici, di ricevere cure mediche gratis a carico dei datori di lavoro, e di poter contare su pensioni di vecchiaia adeguate. E persino di mandare i propri figli all'università, quanto meno alle università statali potenziate proprio in quei decenni. Questo serve a Krugman a ritenere proponibile una politica altrettanto decisa di quella del New Deal, che ribalti di nuovo il panorama sociale negli Stati Uniti, facendoli tornare a essere il paese per eccellenza della classe media, riducendo drasticamente e rapidamente la divaricazione economica e sociale che secondo quanto afferma e in qualche misura prova i registi della strategia della destra radicale sono riusciti, in un trentennio di restaurazione, a far prevalere nel loro paese.
Ma come è possibile che i bianchi poveri del Sud e buona parte dei colletti blu di tutto il paese si siano lasciati convincere ad appoggiare un programma politico che li ha tanto palesemente danneggiati? Tra le spiegazioni di Krugman, oltre al razzismo, un posto d'onore lo assume la manipolazione mediatica continua, pressante, che sfrutta le paure e l'anomia in cui si dibattono le classi subalterne americane per ottenere consensi, che sono poi usate per introdurre misure e politiche che aumentano la polarizzazione. Si crea consenso parlando di valori come la religione e il patriottismo, ma in realtà si cambiano i prezzi relativi e il sistema fiscale a favore delle grandi imprese e dei loro manager, e si favoriscono i possessori delle grandi ricchezze.
Poiché, tuttavia, ora la situazione sociale, unita a una disastrosa politica estera, è divenuta del tutto insostenibile negli Stati Uniti, secondo Krugman una decisa "rivoluzione sanitaria", che con poche misure essenziali introduca la copertura sanitaria universale negli Stati Uniti e colpisca, per finanziarla, le classi più ricche, limitandosi a far scadere i grandi benefici fiscali introdotti per loro dal George W. Bush fino al 2010, può essere l'equivalente moderno del New Deal, conquistando un livello di consenso talmente forte e stabile da far mollare per qualche decennio almeno la presa che i neocons hanno ottenuto sul Partito repubblicano e sull'intera società americana.
Come ho detto sopra, il libro di Krugman è stato pubblicato nell'autunno del 2007 e scritto nell'estate di quell'anno. Krugman si mostra estremamente fiducioso, dopo i risultati delle elezioni di metà mandato del 2006, sull'effettiva possibilità di un ribaltone politico nelle presidenziali. Il suo ottimismo è stato confermato dai fatti ma, bisogna affrettarsi ad aggiungere, per motivi che forse danno in parte ragione a David Kennedy. Fino a quando, infatti, il motto dei liberal come lui restava "It's the politics, stupid", parafrasando opportunamente la frase con la quale Clinton aveva vinto le elezioni del 1992, McCain e suoi supporter avrebbero probabilmente vinto. Ma il disastro finanziario che i repubblicani sono riusciti a scatenare, prima con la loro politica di assoluto laissez-faire nei confronti delle istituzioni del credito e della finanza e poi, a crisi scoppiata, con misure di contenimento della medesima del tutto inappropriate, mal congegnate e perfino folli, come il fallimento della Lehman Brothers, ha condotto a una situazione economica, in coincidenza con le elezioni, che ha rimesso in voga la versione originale del detto clintoniano, restituendo quel primato all'economia che da solo ha permesso a Obama di prevalere.
Ci sono altre considerazioni che un economista può fare sul libro di Krugman. La prima che viene in mente è che nell'analisi del neo premio Nobel nessun ruolo è assegnato alle trasformazioni industriali che hanno squassato gli Stati Uniti per la crisi del cosiddetto modello fordista, e cioè proprio della produzione di massa di beni di consumo durevole mediante catena di montaggio che, ai suoi tempi migliori, ha permesso alle industrie americane di pagare ai propri dipendenti salari sufficienti a proiettarli nella classe media. Anche perché tale modello produttivo andava insieme a una situazione di oligopolio negli stessi settori industriali, in cui, come chiarito da Paolo Sylos Labini e Joe Bain negli anni cinquanta, l'aumento dei profitti permesso dalla capacità di controllare i prezzi e dal progresso tecnico poteva essere diviso tra imprenditori e operai. Anche Krugman ricorda, inoltre, che la chiusura del mercato americano alle importazioni e in particolare la superiorità tecnologica americana dei primi decenni postbellici, unite alla chiusura della immigrazione che valeva dal 1924, avevano contribuito a creare condizioni di favore per produttori e lavoratori americani. Condizioni che si sono affievolite con il tempo, perché gli stessi prodotti hanno cominciato a essere importati da altri paesi a salari inferiori e anche perché gli imprenditori americani dei settori a maggiore intensità di lavoro, fuggendo il potere dei sindacati nel Nord-Est del paese, si sono trasferiti prima negli stati del Sud, dove, con l'aiuto delle autorità locali, hanno impedito ai sindacati di esistere, e poi hanno delocalizzato la produzione in paesi europei e in seguito del Terzo mondo, alla ricerca di salari inferiori.
Dopo aver letto il libro di Krugman, sia un politologo che un economista possono concludere di non aver appreso nulla o quasi sulla società americana che già non sapessero, essendo i contenuti del libro un'intelligente sintesi dei risultati di ricerche condotte negli ultimi decenni.
Questa, tuttavia, è una conclusione del tutto indebita. Il libro del neo premio Nobel, infatti, non è destinato ai professionisti dell'economia, o di altre scienze sociali, ma a un pubblico assai vasto di persone che cercano una spiegazione ragionevole a eventi che hanno portato gli Stati Uniti a soffrire una redistribuzione del reddito e della ricchezza di portata gigantesca nel corso degli ultimi trent'anni, che ha riportato la società americana ai livelli di disuguaglianza degli anni venti. Krugman ha deciso di ignorare completamente la dimensione monetaria e finanziaria, perché gli premeva sostenere il primato della politica e delle istituzioni nella spiegazione di ciò che è accaduto alla società americana. Facendolo, si è esposto alle critiche dei suoi colleghi economisti e a quelle di politologi e storici. Ma il messaggio che invia è chiaro e in tutto simile a quello contenuto in una storica frase di Roosevelt: "L'unica cosa di cui aver paura è la paura". Se il popolo si muove, le cose possono cambiare e cambiare in fretta. Scrivendo nell'estate del 2007, con in mente i risultati delle elezioni del 2006, gli è sembrato che il popolo avesse cominciato a muoversi, che lo strano dominio dei repubblicani sul Sud stesse divenendo socialmente insostenibile, che la classe media spossessata avesse raggiunto i limiti della sopportazione e fosse pronta a cambiare cavallo. Il suo ottimismo era ragionevole, come hanno provato la vittoria di Obama prima alle primarie e poi alle presidenziali. Ma anche questa volta "It was the economy, stupid", gli si potrebbe obiettare. Senza la crisi finanziaria, Obama non avrebbe vinto.
Ora, tuttavia, dopo il risultato elettorale, si può temere che le "armi di distrazione di massa", che Krugman tanto efficacemente descrive nel suo libro, siano usate anche da quella parte dell'establishment democratico della quale ha scelto di non parlare, ma che, come nota Kennedy, ha avuto una parte importante, negli otto anni della presidenza Clinton, nel non opporsi alla polarizzazione in corso nella società americana e nel far fallire, ad esempio, il tentativo clintoniano di riforma sanitaria. Se poi Krugman avesse rivolto la propria attenzione anche a banca, finanza e moneta, avrebbe dovuto necessariamente notare quanto la leadership democratica clintoniana abbia attizzato il fuoco che alla fine ha devastato il sistema finanziario americano, propagandosi a quello mondiale, con il rischio di riportarci, dopo settant'anni, a una depressione economica di lunga durata.
Resta però il fatto incontrovertibile denunciato da Krugman: nonostante la collaborazione di una parte importante dell'establishment democratico, e malgrado la rilevanza delle trasformazioni economiche che non sono dovute all'azione dei politici, la polarizzazione della società americana l'hanno voluta e perseguita i neoconservatori della destra repubblicana. Speriamo, con Krugman, che opporsi a loro, e restituire alla società americana parte delle caratteristiche dei decenni più positivi della sua storia, sia la vera politica, e non solo il programma elettorale, di un presidente che rappresenta, con la sua elezione, il riscatto dalla parte più tragica di questa storia. Marcello de Cecco
Dove sta andando l'America d'oggi? La nazione economicamente forte, egualitaria e progressista che dominava il panorama internazionale del dopoguerra ha lasciato il passo a un paese in profonda crisi. Quali le cause di questa trasformazione? Secondo Paul Krugman non ci sono dubbi: le ragioni sono da attribuire alle politiche conservatrici attuate dagli ultimi governi Bush. Senza remore e mezzi termini, il premio Nobel per l'economia 2008, docente alla Princeton University e affermato e seguitissimo editorialista del New York Times, ci spiega come e perché negli Stati Uniti si siano imposte la diseguaglianza economica e l'ultraconservatorismo politico. «La politicizzazione di ogni fatto o situazione, il valore assoluto che gli ultraconservatori attribuiscono alla fedeltà politica, creano una cultura di nepotismo e corruzione che ha pervaso l'intero operato dell'amministrazione Bush, dalla ricostruzione fallita dell'Iraq alla risposta infelice al'uragano Katrina scrive Krugman. - I molteplici fallimenti dell'amministrazione Bush sono il risultato di un governo in mano a un movimento che si dedica ad attuare politiche contrarie agli interessi della maggioranza degli americani, e che deve tentare di compensare questa debolezza intrinseca con l'inganno, i diversivi e la munificenza nei confronti dei propri sostenitori.»
Nelle trecento pagine di questo saggio, con il rigore dello studioso e la chiarezza del divulgatore, Krugman fa il punto della situazione attuale e traccia l'evoluzione della storia americana moderna, a partire dall'inizio del XX secolo fino ad oggi. Dal persistere delle disuguaglianze sociali ed economiche che caratterizzarono la "lunga età dell'oro", tra fine Ottocento e inizio Novecento, al New Deal di Roosevelt, che risollevò l'America dalla crisi del '29 e inaugurò la politica dello Stato sociale; dagli anni Sessanta, con la lotta peri i diritti civili delle minoranze razziali e la guerra del Vietnam, agli anni Ottanta di Reagan, con cui ebbe inizio la perdita di potere della classe media e la radicalizzazione del partito repubblicano, culminate nel XXI secolo con i governi Bush.
Krugman ricorda che il Paese in cui nacque, nel 1953, è ormai lontano. La società middle-class in cui «il grande boom dei salari elevò il tenore di vita di decine di milioni di americani», e in cui «c'era un ampio consenso tra Democratici e Repubblicani in politica estera e su molti aspetti della politica interna» non esiste più. E si chiede se potrà mai tornare a vivere.
Questo suo saggio è un libro coraggioso di forte denuncia ma si conclude con un programma di cambiamento, che apre una speranza per il futuro. «Alle elezioni del 2008 può ancora succedere di tutto, ma sembra ragionevole supporre che nel 2009 l'America avrà un presidente democratico e un Congresso saldamente democratico. Che cosa dovrebbe fare la nuova maggioranza? La mia risposta è che, nell'interesse della nazione, dovrebbe attuare un programma imprescindibilmente liberal, che promuova l'espansione della rete di sicurezza sociale e riduca la disuguaglianza: un nuovo New Deal». Ecco la nuova previsione di uno degli economisti più seguiti e controversi d'America, che, profeticamente, non ha temuto di denunciare i pericoli a cui andava incontro l'economia degli Stati Uniti.
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