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Il 17 febbraio 1992, a Milano, venne arrestato per corruzione Mario Chiesa, socialista emergente, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Così iniziò Tangentopoli. Dapprima a Milano, e poi in diverse altre città e regioni si moltiplicarono comunicazioni giudiziarie e arresti di politici di primo piano; furono sottoposti a procedimento tutti i segretari dei partiti di governo; un ex presidente del Consiglio (l'onorevole Craxi) fu raggiunto da più ordinanze di custodia cautelare (e, poi, di carcerazione), non eseguite solo per la sua latitanza all'estero; molti enti pubblici furono decapitati di presidenti e di amministratori e altrettanto accadde per alcuni colossiprivati. A Milano, epicentro del fenomeno, la Procura chiese il rinvio a giudizio di 3.200 imputati: di essi 1.281 (pari al 40 per cento) sono stati condannati (620 con riti alternativi all'udienza preliminare e 661 in dibattimento) e 459 (14,35 per cento) prosciolti o assolti per motivi di merito; dei restanti 1.460, 652 (20,4 per cento) sono stati prosciolti per prescrizione o amnistia, 433 (13,5 per cento) sono stati "dirottati"per competenza ad altra autorità giudiziaria e 375 (11,7 per cento) sono stati oggetto di provvedimenti processuali (stralci, riunioni o restituzione degli atti al pubblico ministero). Secondo una trionfalistica definizione dei media fu una "rivoluzione" per via giudiziaria; più realisticamente fu l'emergere in sede processuale dell'intreccio, diffuso e all'apparenza inarrestabile, tra malaffare e settori dell'amministrazione, dell'imprenditoria e della politica, diretto prevalentemente (ancorché non soltanto) al finanziamento di quest'ultima. Lo confermò alla Camera, il successivo 29 aprile, l'onorevole Craxi, il quale, nel dibattito sulla concessione dell'autorizzazione a procedere nei suoi confronti per sei episodi di corruzione (contestatigli dalle Procure di Milano e Roma), non negò i fatti ma si limitò a chiamare in correità il Parlamento, invitando chi non aveva "preso soldi" per finanziare la politica ad "alzarsi in piedi" (provocando sia detto per inciso non già l'indignazione generalizzata dei colleghi, ma il rigetto, a maggioranza, di ben quattro delle autorizzazioni richieste).
Quindici anni dopo Piercamillo Davigo, protagonista di quella stagione come pubblico ministero a Milano, e Grazia Mannozzi, docente di diritto penale all'Università dell'Insubria, si interrogano, in un corposo volume, sugli esiti di quella vicenda e, più in generale, sulla situazione della corruzione nel nostro paese in un ampio e significativo lasso di tempo, comprensivo dei venti anni che vanno dal 1983 al 2002. Le domande sono esplicite: "In che misura è affiorata la corruzione? Quale può essere lo scarto fra criminalità registrata e criminalità sommersa? In quali regioni la corruzione è emersa di più? Come si colloca la corruzione italiana nel panorama mondiale? Con quale efficacia ha reagito il sistema? Quante condanne definitive sono seguite alle inchieste? Qual è stata la severità media delle sanzioni concretamente irrogate?". Le risposte elaborate a partire da dati di provenienze diverse ma, soprattutto, giudiziari sono stimolanti e articolate, pur nella difficoltà di districarsi fra statistiche lacunose e insufficienti (vizio antico del nostro sistema), mancata collaborazione del ministero dell'Interno (sordo alle richieste degli autori, ed è da solo un dato di grande significato sulle ragioni della situazione italiana) e difficoltà di misurare il "numero oscuro" del fenomeno (per definizione ingente, con riferimento a reati "a vittima muta" o "a vittima inibita" come sono rispettivamente corruzione e concussione).
L'importanza e l'originalità (almeno per il nostro paese) del lavoro di Davigo e Mannozzi sta nel suo svilupparsi su elementi di fatto spesso inediti e analizzati con rigore, che va detto subito offrono una fotografia della realtà assai inquietante.
Alcun flash tra i molti possibili: il picco delle indagini e dei processi per corruzione e concussione è intervenuto, in Italia, nel 1992-93, mentre, a partire dal 1994 c'è stato un vero e proprio crollo e il numero dei delitti di corruzione e/o concussione denunciati è rapidamente tornato al livello del 1991 (e, dunque, alla situazione precedente Tangentopoli); le indagini su corruzioni e concussioni hanno avuto un andamento a macchia di leopardo assai più marcato di quanto abitualmente non si ritenga: basti dire che delle 4.454 condanne definitive intervenute per tali reati nei venti anni considerati, 882 sono state pronunciate nel distretto della Corte di appello di Milano, 588 in quello di Torino e 538 in quello di Napoli, e solo 384 nel distretto di Roma, mentre in ben tre corti (Cagliari, Caltanissetta e Reggio Calabria) il dato è inferiore a 10; stando alla rappresentazione giudiziaria, la corruzione in alcune regioni d'Italia non esiste e non è mai esistita, e ciò mentre si susseguono, al riguardo, denunce circostanziate e precise: è il caso, per esempio, di Reggio Calabria dove, a fronte di tre condanne complessive in venti anni (sic!) stanno le dichiarazioni rese in sede giudiziaria dall'ex sindaco Agatino Licandro (dimessosi nel 1992) secondo cui "a Reggio si vive su un sistema che, senza mazzette nei momenti e nei punti giusti, si paralizzerebbe (
); non un'orgia di arrembaggi, ma una realtà di regole, rapporti, convenzioni solide, un linguaggio dove sfumature e sottolineature assumono la solennità della firma di un contratto"; i dati raccolti e comparati evidenziano in modo univoco che "la corruzione giunge a conoscenza dell'autorità in misura molto più ridotta quando risulta 'gestita' dalla criminalità organizzata".
Dopo i dati, due domande. La prima riguarda gli effetti dei processi di Tangentopoli sull'andamento del fenomeno della corruzione. A essa gli autori rispondono con dovizia di (convincenti) argomentazioni che, nonostante i "fasti" giudiziari di Mani pulite, la corruzione non è affatto diminuita dai primi anni novanta a oggi. E ciò perché quella di Tangentopoli è stata una straordinaria occasione dovuta a circostanze contingenti e non a un cambiamento culturale diffuso e penetrato nel profondo della società. Le circostanze contingenti ci permettiamo di aggiungere sono state molte e non agevolmente ripetibili: un livello qualitativo della corruzione incompatibile con le esigenze dell'economia, le ricadute di uno scontro politico senza esclusione di colpi (che ha determinato lo "scaricamento"di personaggi intorno ai quali il sistema aveva in precedenza fatto quadrato), la crescita di efficienza e di capacità investigativa di alcuni apparati di polizia, il (provvisorio) attenuarsi della capacità di controllo diretto del sistema politico sui processi più delicati (tradizionalmente realizzato attraverso la cosiddetta "giustizia politica", fatta di "prudenza" della Commissione inquirente e di "sobrietà" nelle autorizzazioni a procedere), il graduale incrinarsi dell'omogeneità (consapevole o inconsapevole) di molta parte della magistratura con il sistema politico di cui è stata per lustri simbolo la Procura della Repubblica di Roma e che ha prodotto omissioni, insabbiamenti, avocazioni, competenze sottratte, connessioni ardite e molti altri artifici, pur di non turbare gli assetti di potere esistenti.
C'è una seconda domanda, strettamente connessa alla prima: è possibile far emergere la corruzione in maniera più diffusa e, soprattutto, arginarla in modo più drastico? Ovviamente la domanda si intreccia con l'analisi della situazione dei venti anni esaminati, da cui emerge, secondo gli autori, che a favorire l'espandersi della corruzione ha concorso in modo significativo l'insufficienza e la superficialità della risposta giudiziaria, determinata da un sistema penale arcaico e inadeguato, dall'impropria formulazione di alcune fattispecie di reato, dalla sempre incombente prescrizione (i cui tempi sono stati ulteriormente ridotti nella penultima legislatura) e via seguitando. Di qui indicazioni propositive conseguenti: una più comprensiva riscrittura delle fattispecie di concussione e corruzione (soprattutto ambientale), una profonda revisione della disciplina della prescrizione, la previsione di opportuni strumenti (e benefici) per stimolare denunce e collaborazione processuale delle vittime ecc.
Proposte ragionevoli e condivisibili, ma concentrate soprattutto sulla risposta penale. Non a caso, data l'estrazione professionale di Davigo e Mannozzi, i quali, peraltro, non nascondono l'insufficienza del (solo) intervento giudiziario. E non può che essere così, in una situazione in cui l'entità e la profondità dei fenomeni indagati pongono sempre più agli osservatori il drammatico dilemma: se siamo di fronte a una corruzione nel sistema ovvero a una corruzione del sistema. Livio Pepino
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