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La reclusione costituì per il giurista un'esperienza traumatica: solo il costante privilegiamento della dimensione oggettiva la distanza che da lui nutrita nei confronti dell'autobiografia come forma espressiva ha fatto sì che non se ne dia praticamente traccia alcuna nei suoi scritti (con l'eccezione del pur rilevante Ex captivitate salus). Sul piano del procedimento giudiziario le accuse rivolte durante i due periodi di detenzione che ne funestarono la vita nell'immediato dopoguerra relative al sospetto di "partecipazione diretta o indiretta alla pianificazione di guerre di aggressioni di crimini di guerra di crimini contro l'umanità" si evidenziano dal punto di vista giuridico nella loro ingiustificabilità e l'operazione editoriale sembra essere costruita per avallare non senza fondamento questa tesi. La strategia difensiva adottata a sua volta tradisce e rivela al tempo stesso tutta la coscienza della superiorità intellettuale se non morale dell'imputato di fronte al suo accusatore difesa lucidamente tesa a dimostrare tanto l'infondatezza delle accuse quanto l'impossibilità di tradurre in fattispecie di reato posizioni "puramente" teoriche prive d'ogni ricaduta nell'immediato. È in questa linea che Schmitt può dichiarare la sua distanza dagli scritti più propriamente apologetici del nazismo senza abiurarli affermando di essersi sempre sentito "spiritualmente e moralmente" superiore al Führer di non aver avuto nessun diretto contatto con i gerarchi nazisti imputando al formalismo giuridico e all'identificazione tra legalità e legittimità la passività del ceto dei giuristi di fronte all'ascesa di Hitler: quasi come il nazismo stesso non abbia inteso grazie a una certa retorica cui lo stesso Schmitt non è estraneo situarsi costantemente al di là della razionalità burocratica che Weber considerava la concretizzazione storica di tale identificazione.
Da un punto di vista più compiutamente critico sembra interessante cogliere come già presentificato l'ideologicità di ogni posizione che si erga a difesa dell'umanità celando la "volontà di potenza" sottostante alla definizione-interpretazione-nominazione di chi discrimina da vincitore l'umano dal non umano sottraendosi a sua volta allo stesso criterio d'imputazione. Se però ogni tentativo di responsabilizzare moralmente e ancor più giuridicamente il filosofo sembra destinato allo scacco – per cui anche gli imbarazzanti silenzi di Heidegger risultano in qualche modo giustificati – dalle pagine in questione permane l'interrogativo se non si dia una responsabilità dell'intellettuale a carico di quel vivente che inevitabilmente eccede la propria scrittura e dove possibile determinarle le proprie intenzioni. La lettura di questo testo pone in altri termini il lettore di fronte a un quesito di notevole rilievo: per quanto non vi sia responsabilità dell'intellettuale di fronte ai sistemi normalizzanti e normativizzanti della morale e del diritto si può comunque configurare un'istanza che lo riguardi nei confronti di quelle pratiche sociali e politiche che secondo finalità pure del tutto eterogenetiche pone in essere?
Dalla lettura di Risposte a Norimberga emerge con chiarezza non procrastinabile la necessità che oggi nel momento in cui ogni modalità di soggettivazione è destinata all'oblio il filosofo più di ogni altro sia chiamato a un supremo gesto di responsabilità e redenzione al tempo stesso che solo può portarlo non a giustificarsi dinanzi alle ricadute del proprio pensare quanto ad affermare gioiosamente: "Così volli che fosse!". Pertanto solo la presenza di una responsabilità paradossalmente "amorale" e "redentiva" nei confronti della storia può accompagnare la pur feconda constatazione dell'ideologicità delle accuse di fronte alle quali Carl Schmitt ebbe buon gioco nel dimostrarsi inoppugnabilmente innocente: ed è a partire da questa responsabilità che sarebbe interessante riprendere oggi la questione della possibile ascrizione delle tematiche decisioniste al patrimonio intellettuale della sinistra.
Vincenzo Rapone
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