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Attraverso i rapporti alterni e contraddittori tra intellettuali e Partito comunista si colgono le attese di un paese al quale il passaggio dal regime fascista alla costituzione repubblicana sembrava aprire ogni possibilità di libertà e di progresso, al limite dell'utopia. E il Pci appariva l'interprete politico naturale di queste speranze. Ma nonostante l'ampiezza delle sue aperture, uniche, anche per i partiti comunisti d'Occidente, il Pci si trovò ben presto a fare i conti con la propria realtà di istituzione politica vincolata da tensioni durissime all'interno del paese, e da un «legame di ferro» con l'Urss all'esterno. Di qui le prime frizioni e fratture, culminate nell'episodio del “Politecnico”, la rivista di Vittorini, alla quale Togliatti ritirerà ben presto l'imprimatur del partito; e, più tardi, nella rivolta degli intellettuali che seguì ai fatti dell'«indimenticabile 1956». I fatti e l'atmosfera di quegli anni ci vengono restituiti, anche da una rilettura di giornali, riviste, resoconti di congressi, e attraverso lettere inedite; ma soprattutto Ajello si è servito della testimonianza diretta di protagonisti come Italo Calvino e Giancarlo Pajetta, Antonio Giolitti e Carlo Muscetta, Manlio Rossi Doria ed Eugenio Garin, Aldo Natoli e Romano Bilenchi, Cesare Luporini e Massimo Caprara, Giorgio Napolitano e Rossana Rossanda.
«Intellettuali e Pci. 1944-1958 […] uscì nel 1979. Oggi la scomparsa del Pci dà a quelle pagine un senso concluso. Il 1958 è davvero una data di epilogo: segna, a me pare, il primo punto di approdo della diaspora culturale iniziata con il 1956, l'anno dell'Ungheria. È, insieme, una data di svolta. Il Pci, gli intellettuali, le loro vicende e diatribe riempiranno ancora le cronache. Ma si tratterà di un'altra storia…» (Dalla Prefazione dell'Autore a Il lungo addio, in questa stessa collana, 1997).
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L’Autore disegna il controverso rapporto fra intellettuali e Partito Comunista a partire dalla svolta di Salerno del 1944, evento in cui Togliatti seppe proporre con il “partito nuovo” un polo di attrazione e di speranza per larga parte degli artisti usciti dall’atmosfera soffocante del fascismo e provenienti da varie scuole di pensiero e da differenti retroterra ideali – non pochi i reduci dalle esperienze nei GUF. L’afflusso di tantissime personalità e le relazioni con l’intellighenzia non potevano da un lato non risentire del clima censorio instaurato dalle forze clericali in Italia e, qualche anno dopo, della guerra fredda, né dall’altro essere in contrasto con le posizioni del PCI per la sua ferma scelta di campo. Ajello richiama così malesseri e dissensi dell’intellettualità restia a farsi ingabbiare entro i rigidi schemi imposti dall’obbedienza ai paradigmi di stampo zdanoviano, fino alla sofferta e spesso silenziosa diaspora che si registrò a seguito del XX congresso del Pcus e, poco dopo, delle laceranti vicende ungheresi del 1956. Il libro procede cronologicamente o, quando necessario, per blocchi tematici, e ha un’impronta da documentario TV, costellato com’è da citazioni tratte da interventi sia dei dirigenti politici – alcune delle quali oggi suonano deliranti – sia di esponenti del mondo della cultura; per questa sua impostazione si legge senza difficoltà, ancor meglio se si ha un’infarinatura sull’argomento. A paragone con il presente, prescindendo dal giudizio di merito sulle diverse posizioni, si resta colpiti dal protagonismo degli intellettuali nel dopoguerra e dall’elevato livello culturale dei politici di allora.
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