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recensione di Rondolino, G., L'Indice 1985, n.10
Un'opera di Ejzenstejn è sempre stimolante, variamente interessante, a volte provocatoria, spesso suggestiva, e magari un po' esotica e dispersiva. È un'opera, in ogni caso, in cui circolano il pensiero, la ricerca appassionata, l'intuizione e lo studio attento: un'opera viva, che coinvolge il lettore, anche e forse soprattutto il non specialista. Non fa eccezione, anzi per certi aspetti è ancor più emblematico in questo senso, il grosso volume che la Marsilio pubblica ora come terzo dell'edizione italiana delle "Opere scelte" del grande regista e teorico sovietico, dopo "Il colore" (1982) e "La natura non indifferente" (1981).
Emblematico perché è il frutto di un progetto lungamente perseguito, interrotto e ripreso, rimasto per lungo tempo inedito, interpolato con altre ricerche parallele, con studi frammentari, in un momento in cui Ejzenstejn, passato dal fallimento di "Que viva Mexico!" (1931-32) a quello del "Prato di Bezin* (1937), si era dedicato quasi completamente all'insegnamento. Sicché il testo, che qui viene pubblicato per la prima volta con varie integrazioni e aggiunte rispetto all'edizione sovietica di vent'anni fa, secondo il piano proposto da Naum I. Klejman, direttore del Museo Ejzenstejn di Mosca, si presenta non tanto come un trattato compiuto e organico, quanto piuttosto come una serie di osservazioni inserite in un quadro generale di riferimento teorico, questo sì organico e compiuto. Ed è questa frammentarietà organizzata, se così si può dire, a costituire al tempo stesso il fascino del libro ed il suo carattere emblematico, in rapporto a quello che possiamo definire lo stile letterario di Ejzenstejn. Il quale ne era ben cosciente se, citando Goethe ("La mia tendenza è la personificazione delle idee"), volle scrivere nella prefazione: "E questa definizione racchiude tutto il significato della creazione della forma, comprendendo in sé anche i punti estremi dello stile e dell'espressione, dalla scrittura simbolica e allegorica fino al discorso frammentato che usiamo nella vita quotidiana per esprimere un'idea ed esporne in modo prosaico il contenuto con parole mozze".
Ricostruito nelle sue linee fondamentali, il libro si articola in tre sezioni che affrontano partitamente - almeno nelle intenzioni, perché in realtà i problemi scorrono da una sezione all'altra, quasi sfuggendo a ogni rigido controllo sistematico - quelli che lo stesso Ejzenstejn definisce il montaggio nel cinema della ripresa da un unico punto, il montaggio nel cinema della ripresa da più punti, e il montaggio nel cinema sonoro (questo titolo è del curatore). Come a dire che tutti i vari aspetti del montaggio sono affrontati e ampiamente studiati entro il quadro di riferimento d'una teoria generale che tende a comprendere ogni manifestazione linguistica e formale che possa definirsi come "di montaggio".
Di qui le varie incursioni nei campi contigui della pittura, dell'architettura o meglio dell'urbanistica - (si vedano in proposito le osservazioni cinematografiche sulla disposizione degli edifici sull'Acropoli di Atene) - e soprattutto della letteratura, di cui Ejzenstejn si dimostra profondo conoscitore e fine analista. Tanto da suggerire una nuova interpretazione dell'opera cinematografica sua, o almeno una linea di ricerca nel campo delle sue scelte formali, spesso derivate da un desiderio, da una necessità o addirittura dalla scommessa di inventare una serie di corrispettivi cinematografici alle più diverse e complesse tecniche letterarie. Quasi che Ejzenstejn volesse in qualche modo visualizzare la parola, ricostruendo per mezzo dell'immagine semovente del cinema e delle sue molteplici combinazioni dinamiche la struttura polimorfa del linguaggio verbale.
Impresa invero non facile, di cui si ha ampia testimonianza nei suoi film, in numerosi suoi scritti e in questo libro corposo; ma impresa indubbiamente affascinante che, al di là dei risultati magari falliti, discutibili, ingenui, ha saputo mettere in moto tutta una serie di problemi, particolari e generali, che investono direttamente l'arte e la letteratura come linguaggi formalizzati. E sebbene non poche intuizioni o analisi di Ejzenstejn ci possano sembrare oggi, a cinquant'anni di distanza, un poco scontate, è certo che la lettura di questi testi dispersivi, ripetitivi, barocchi, che paiono germinare l'uno dall'altro per partenogenesi, ci spinge nuovamente ad affrontare questioni di teoria e di critica che credevamo definitivamente chiuse. Alla base di tutto, sembra suggerirci Ejzenstejn, c'è il montaggio, nel senso di scelta e disposizione dei materiali entro uno schema formale che voglia cogliere il contenuto reale del mondo in cui viviamo. E questo montaggio, che nel cinema va visto e studiato dentro e fuori dell'inquadratura, in tutti gli elementi (compresa la musica e il suono e le parole e i rumori) che compongono un film, è la struttura portante d'ogni linguaggio artistico. Tanto che non si può parlare d'arte se non in termini di montaggio. Ovvero non si riescono a individuare, a volte, i contenuti ideologici, estetici, etici, politici, ludici d'un'opera se non per mezzo d'una osservazione "montata", che sappia vedere e raccordare fra loro le parti sparse, sebbene autonomamente conchiuse, d'un unico corpo.
In questa direzione si muovono le varie analisi testuali proposte da Ejzenstejn, che spaziano nei più diversi campi dell'arte e della letteratura. Analisi che ci paiono importanti e significative e utili, non tanto, forse, per l'apporto reale della ricerca o della proposta interpretativa, quanto per il posto che occupano nel discorso generale sul montaggio. Si pensi, ad esempio, alla indagine sui rapporti fra l'immagine cinematografica e la metafora letteraria, allo studio dei conflitti all'interno della struttura formale dell'inquadratura, all'esemplare ricognizione delle formelle scolpite dal Bernini per il baldacchino dell'altar maggiore in San Pietro. Si pensi alle pagine dedicate all'analisi testuale dell'opera di Puskin e di altri scrittori, o a quelle, non poche, dedicate allo studio delle varie pratiche di meditazione, dalla mistica medievale a San Ignazio di Loyola. Uno studio, quest'ultimo, che, rifacendosi alle teorie teatrali di Sranislavskj, indaga la vasta gamma delle relazioni fra realtà e finzione, fra pratica del teatro e lavoro dello spettatore, lungo una linea di ricerca che riconduce i frammenti sparsi del discorso teorico sulla strada maestra del montaggio, inteso appunto come struttura portante di ogni linguaggio formalizzato.
Non si creda tuttavia che questa "teoria generale del montaggio"- come suona il titolo dell'edizione italiana del libro - si possa così banalmente semplificare. In realtà Ejzenstejn, che pure torna sovente su concetti già espressi in precedenza e riprende intuizioni teoriche di dieci anni prima, offre un campionario così vasto di esempi e proposte interpretative che non possono essere racchiuse in uno schema semplicistico. Il valore del libro, e la sua parziale attualità, sta infatti nelle aperture che suggerisce, nell'inquietudine critica che trasmette, nell'insofferenza per i luoghi comuni che tenta di demolire. Cosicché, anche fuori del cinema e del suo studio specialistico, il discorso di Ejzenstejn merita di essere ascoltato, non soltanto dagli studiosi e dai critici, ma anche dai lettori e dagli spettatori; e merita anche di essere proseguito e approfondito.
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