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Libro bellissimo, ben scritto, mai noioso e mai banale. Delineati con sensibilità e intelligenza i profili psicologici dei personaggi. Da leggere.
E' uno dei libri più belli che abbia mai letto. Mi sarebbe piaciuto regalarlo a tutte le persone a cui voglio bene e che amano la lettura. Appena finito il libro ho avuto la fortuna di poter andare a Praga ed è stata una delle più belle esperienze di vita/lettura/vacanza che abbia mai avuto. I personaggi hanno lasciato un vero solco nel mio cuore e, come altri hanno già detto, una volta finito il libro avvertivo quasi fisicamente la loro mancanza. Lo consiglio a tutti, da leggere e rileggere più volte, MERAVIGLIOSO!!
..che dire..grandioso..!! L'ho finito in 5 giorni (sono più di 800 pgg.) , come dire, non riuscivo a smettere di leggerlo.. E ora Joe e Sam già mi mancano. Sicuramente entra nella mia personale top ten!!
Recensioni
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A differenza di altri giovani (ma ormai non più giovanissimi) scrittori americani, che si sono subito conquistati un loro pubblico in Italia, Michael Chabon (classe 1963) ha finora stentato a essere riconosciuto. Il suo romanzo d'esordio, I misteri di Pittsburg è apparso anche negli "Oscar Mondadori", ma non credo che siano mai stati tradotti i suoi racconti, e - cosa più strana - è restato inedito anche Wonder Boys, a dispetto dell'omonimo, gradevole film con Michael Douglas. In ogni caso, con Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay (premio Pulitzer 2001), Chabon ha fatto un salto di qualità, e da perfetto collaboratore del "New Yorker" e altre belle riviste appena troppo patinate, è diventato - mi sembra - un autore tout court: e della razza piuttosto rara degli autori senza vezzi e con poche idiosincrasie, dal nitore classico e la pagina ariosa, che non può essere tacciata di solo virtuosismo.
Ambientato essenzialmente a New York, ma con alcuni capitoli in Antartide (la sezione più drammatica, e forse la meno riuscita) e un magnifico prologo nella Praga "magica" del Golem, il romanzo accompagna Joe Kavalier e suo cugino Sammy Klayman (in arte Clay) dal 1939 al 1954: dai primi venti di guerra, insomma, ai sentori di guerra fredda e maccartismo. Un affresco storico imponente, che si mantiene leggero, aereo, grazie alla prospettiva tutta particolare da cui è tracciato: che è quella dell'industria nascente - e nel '50 già molto in difficoltà - del giornale a fumetti. Le "fantastiche avventure" dei due cugini sono infatti tanto le loro proprie, quanto quelle degli eroi della loro fantasia (l'Escapista, in particolare, una specie di Superman della fuga), che Sammy sceneggia e Joe disegna: facendo la fortuna di Anapol, l'editore improvvisato, ma assicurando un certo benessere anche ai due giovani autori (e guadagnando loro le lodi, fra gli altri, di Orson Wells).
Joe, che a Praga ha studiato prestidigitazione e magia, è riuscito - unico della sua famiglia - a scappare dalla Cecoslovacchia occupata dai nazisti; ma in America resta prigioniero delle responsabilità morali del sopravvissuto. E anche Sammy ha la sua gabbia, bloccato com'è dagli stereotipi sessuali e dai mille freni interiori che non gli permettono di vivere la sua omosessualità ("I suoi sogni giovanili avevano avuto un carattere alla Houdini; erano stati i sogni di una crisalide che lotta nel buio del bozzolo, e impazzisce per la voglia di luce e di aria"). Da questo bisogno di liberazione nasce l'Escapista, eroe della Lega della Chiave d'Oro, che combatte gli agenti della Catena di Ferro, e a ogni nuova avventura sconfigge il perfido Attila Haxoff (Hitler in filigrana). Ai due s'aggiunge la bella pittrice surrealista Rosa Sacks, che avrà una storia d'amore con Joe e qualcosa di più (e di meno) con Sammy, e intanto ispira loro il personaggio della vendicatrice notturna, la prosperosa Luna Moth, con cui il fumetto americano strizza l'occhio ai turbamenti sessuali degli adolescenti, e diventa quasi per adulti.
Chabon è bravissimo a tenere la giusta distanza dai suoi materiali; non guarda all'arte del fumetto con condiscendenza, né si lascia sedurre dal canto di sirena della letteratura popolare. Il libro è lieve e ponderoso allo stesso tempo, serio e sbarazzino, dolente e disimpegnato: vive consapevolmente l'incubo della storia, ma afferma anche che "la fuga dalla realtà [è diventata], soprattutto dopo la guerra, una sfida degna di rispetto", e che non esiste "compito più nobile e utile" di quello di "assecondare il desiderio di fuga nelle giovani menti". Simbolo perfetto di tutto ciò è quel goffo e vulnerabile gigante della tradizione ebraica, il Golem: il quale è qui - come nel Golem di Meyrink - "in parte la materializzazione dell'anima collettiva del ghetto, con tutti i torbidi residui dello spettrale, ma in parte il sosia dell'eroe, un artista che lotta per la propria redenzione" (cito dalla Kabbalah e il suo simbolismo di Scholem, una delle molte fonti che Chabon dichiara in nota). Perché, come riflette Sammy: "Sono tutti ebrei i supereroi. Superman, non pensi che sia ebreo? È arrivato dalla terra delle origini e si è cambiato nome. Clark Kent, solo un ebreo potrebbe andare a pescare un nome così".
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