"Io so. Ma ho le prove". Spero mi si passerà il riuso parafrasato − e, almeno nelle intenzioni, non antinomico − della celebre espressione del Pasolini "corsaro", che si presta a evocare almeno due, per cominciare, degli ingredienti della scrittura saggistica di Santagata, impegnata nell'attraversamento di un'eccezionale pluralità di discipline, di pratiche discorsive e di generi testuali e al tempo stesso ancorata a una idea forte della critica letteraria e delle sue funzioni. Titolo e sottotitolo si impongono già all'attenzione, rispetto al panorama degli studi, e non solo danteschi, per il rimando − tra l'intimidatorio e il provocatorio − a categorie tanto assolute quanto polisemiche quali "io", "mondo", "interpretazione", associate poi nientedimeno che a uno dei giganti sacri della nostra letteratura. L'intento è senz'altro, come è stato notato, quello di presentare in modo sistematico la particolare qualità dell'autobiografismo dantesco, che viene riletta alla luce di un "principio di indistinzione": sulla base di questa categoria Dante azzererebbe nei suoi libri la distanza tra realtà e finzione, creando un "arcipersonaggio" i cui caratteri e la cui vicenda, sovrapponibili in misura diversa e fino alla coincidenza con quelli del personaggio storico e dell'eventuale narratore, sono costruiti e descritti in modo organico attraverso una successione di testi del tutto disorganici tra loro, quali Vita nova, De vulgari, Convivio e Commedia. La forza assertiva con cui è enunciata questa posizione critica (l'"Io so" pasoliniano) è però poi subito agganciata a una fitta serie di rimandi di varia natura, interni ed esterni all'opera dantesca: uno, assai suggestivo, riguarda la miniatura incipitaria di uno dei manoscritti trecenteschi della Commedia, il codice Egerton 943 della British Library, che raffigura un "Dante sdoppiato": mentre Dante autore dorme in un letto, Dante personaggio si inoltra in una selva (la miniatura è riprodotta nel volume). Una seconda immagine memorabile è quella del vomere e dell'aratro, che il Convivio cita mutuandola da Agostino e nella quale non è difficile scorgere anche un'indicazione di metodo di ricerca: "Non si deve credere che tutti gli avvenimenti oggetto di narrazione abbiano qualche altro significato; ma proprio in funzione di quelli che significano se ne aggiungono talora altri di nessun rilievo particolare", come accade del vomere che apre il terreno perché inserito nell'aratro. Le due suggestioni introducono all'analisi del complesso gioco di relazioni tra autobiografismo, realtà storica e finzione da cui prende le mosse e viene sviluppato il progetto della Vita nova e che costituisce una delle fondamenta dell'edificio delle Commedia. L'individuazione e il riesame dei procedimenti di contestualizzazione o di certificazione storica che Dante attua per trasferire realtà − e dunque anche riconoscibilità per il suo pubblico − alla fiction non solo permettono a Santagata di riaprire alcuni dei dossier danteschi più spinosi (cronologia e fasi redazionali della Vita nova, tempi di composizione dell'Inferno, attribuzione del Fiore, autenticità della Epistola di frate Ilaro), ma anche concentrano sui testi un accanito fuoco di fila di indagini che traggono spunto, orizzonti e metodologie di ricerca da ambiti disciplinari diversificati. Una piccola opera d'arte, esemplare dal punto di vista di questa molteplicità di "tavoli di lavoro", è il commento ai canti del paradiso terrestre, centrale anche nell'economia del volume per la funzione di cerniera fra la trattazione sulla Vita nova e quella riservata alla Commedia. Il serbatoio principale di verifica (le "prove" pasoliniane) dell'ipotesi interpretativa è quello storico e storico-sociale: la liturgia battesimale che Dante descrive in chiusura del Purgatorio si rifarebbe ai medesimi rituali che si svolgevano nella piazza e nel Battistero della Firenze di fine Duecento e che sono ricostruiti con sussidi documentari anche di carattere storico-artistico e architettonico; considerazioni di tipo filologico, storico-linguistico, narratologico e intratestuale collegano poi l'episodio a due famosi passi della Commedia (Inf. XIX, 16-21 e Par. XXV, 1-9), nei quali autobiografia, vocazione poetica e investitura profetica coesistono in modo del tutto complanare. I due passi riverberano a loro volta nuovi fasci di senso sui canti del paradiso terrestre, come accade anche dei complessi interventi interpretativi a carico del paesaggio e dei personaggi di Beatrice e di Matelda, dimodoché l'impressione del lettore è quella di assistere al movimento di uno straordinario ingranaggio, reso possibile dallo scatto coordinato di ciascuno dei singoli dispositivi di precisione che lo compongono. Lo stile bonariamente piano, dalle movenze narrative, con cui la scrittura di Santagata conduce questi articolati affondi conoscitivi, formulando ipotesi e accumulando verifiche anche nelle orografie più accidentate della filologia e della critica dantesche, non è uno degli ultimi motivi di fascino di questo volume. Margherita Quaglino
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