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Raramente si può dire di un libro che è così ben riuscito. Non è solo il titolo bello e sorprendente a distogliere dalle pigrizie mentali, il risultato è raggiunto in tutti i capitoli. Negando che sia mai esistita una "separazione netta fra moralità e affari", Todeschini ci illustra le premesse: se Pier Damiani faceva paralleli fra il buon vescovo e il buon mercante, se Goffredo di Vendôme paragonava l'ostia consacrata a una moneta di ottimo conio, evidentemente la tradizione cristiana non era contraria alla ricchezza, bensì all'"adorazione dell'accumulo". Il dibattito fra i secoli XI e XII può contenere sia Bernardo di Clairvaux (polemico contro i monaci di Cluny che "teatralizzavano" la vita monastica ed esibivano ricchezza per attirarne altra) sia Pietro di Blois (polemico contro coloro che accettavano passivamente la condizione di povertà). L'autore compie la scelta originale di analizzare i testi di Francesco stesso e di non limitarsi ai successivi teorici francescani. Francesco contesta sì la moneta, ma perché essa non riesce a rappresentare il "valore misterioso" delle cose: si prepara la distinzione fra necessario e superfluo ma si valorizza anche, del denaro, la "potenza numerale". Il francescanesimo maturo considera i mercanti "esperti di ricchezze", fonda Monti di pietà, sottolinea la distinzione del credito cristiano dall'usura ebraica ("la galassia interfamiliare degli infedeli" ritenuta ben diversa dalla "reciprocità solidale") e magnifica la "circolazione" del denaro paragonata a quella del sangue del corpo umano. Soprattutto stabilisce qual è il mondo degli affidabili dal punto di vista finanziario e definisce in modo incisivo una vera grammatica del credito.
Giuseppe Sergi
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