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recensioni di Piqu‚, B. L'Indice del 1999, n. 12
L'oblio è stato dimenticato. Per lo meno dalla storia delle idee. Salvo rare eccezioni, gli studiosi sembrano aver preferito esplorare i territori iconograficamente più fertili della memoria che non navigare lungo le acquae incognitae del Lete: dal libro di Frances A. Yates sulle mnemotecniche rinascimentali (L'arte della memoria, 1966; Einaudi, 19932) alle indagini di Lina Bolzoni su Giulio Camillo e i teatri di memoria (La stanza della memoria, Einaudi, 1995); dalle sottili analisi di Benedetta Papàsogli sulle prime manifestazioni secentesche di una memoria "affettiva" (Dimore dell'esistenza e dell'attesa,Bulzoni, 1988) a quell'imponente opera di ricostruzione della memoria "collettiva" francese che sono i Lieux de mémoire. A Mnemosine aveva peraltro già rivolto l'attenzione lo stesso Harald Weinrich prima di lasciar approdare la sua raffinata curiosità di uomo di cultura alle sponde del fiume d'oblio.
Senz'altro l'oblio appartiene a quella famiglia di concetti che, come ha osservato Jean Starobinski, acquistano spessore in relazione ai loro opposti. Memoria e oblio: termini accoppiati, nozioni indissolubili. E il libro di Weinrich potrebbe paragonarsi a uno squisito lavoro di traforo ove, in posizione di vuoto e di pieno, oblio e memoria si alternano a comporre il motivo. Questa quête in contrappunto alla ricerca di un'arte e di una critica del dimenticare segue un disegno mosso e vario. Poche e dense pagine - in cui lo studioso vaglia il campo linguistico-semantico dell'oblio dal latino e greco antico alle principali lingue europee moderne e ne ripercorre le valenze mitico-metaforiche più significative - introducono i nove capitoli del libro: nove grandi tappe della letteratura e del pensiero occidentali. Figure e interpretazioni classiche e medievali, innanzitutto: la nascita dell'idea di una "letotecnica" (Temistocle); le narrazioni omeriche (i Lotofagi, Ulisse dimentico della patria per gli incanti di Circe e di Calipso); la cura "psicoterapeutica" al mal d'amore consigliata da Ovidio nei Remendia amoris; la dottrina platonica della reminiscenza e il tentativo agostiniano di conciliarla col patto biblico di memoria tra Dio e l'uomo; la Divina Commedia, infine, "capolavoro della memoria poetica" con cui Dante scongiura l'oblio che sempre minaccia i morti. Con l'Umanesimo e il Rinascimento ecco incrinarsi l'antica fiducia nelle arti mnemoniche, già compromessa dall'invenzione della stampa e minata poi dalla critica al sapere scolastico (Rabelais, Montaigne) e dalle riformulazioni dell'idea, di origine aristotelica, che una memoria salda e fedele si accompagna a un ingegno tardo e lento (ripresa dal medico spagnolo Juan Huarte, cui si ispira probabilmente Cervantes, e più tardi dai filosofi francesi Cordemoy e Helvétius). A questa perdita del prestigio culturale della memoria non poteva non corrispondere un'ascesa di prestigio per l'oblio, benché ancora incerta: se Descartes elabora una strategia dell'"oblio metodologicamente regolato", volto a eliminare dalla mente i contenuti ingannevoli, per gli empiristi del secolo dei lumi (Locke e Voltaire) riacquista peso il topos di una memoria magaz-
zino di idee, mentre Kant assoggetta la facoltà di ricordare al controllo "giudizioso" della ragione.
È tuttavia con Jean-Jacques Rousseau, con il sorgere di un ricordo "dei sentimenti" contraltare alla necessaria dimenticanza "dei fatti", che memoria e oblio conoscono una svolta verso la sensibilità e la cultura moderne. Perché saldandosi d'ora in poi alle problematiche d'identità e di affettività dell'io, andranno non solo a sostanziare il discorso autobiografico, ma prenderanno dimora nelle forme diverse di espressione letteraria: da Chamisso a Proust, da Pirandello a Borges; dall'"orgia d'oblio" di Faust alle "profondità poetiche" dell'assenza in Mallarmé e Valéry sino alle figurazioni teatrali dell'amnesia in Giraudoux e Anouilh. Ma insieme ai fantasmi letterari, l'oblio e la memoria daranno corpo ai nuovi fantasmi inquietanti dell'età moderna: i processi di rimozione (Freud), le modalità di archiviazione e selezione dell'informatica; e l'ormai impossibile oblio dei crimini di guerra perpetrati nel nostro secolo. A quest'ultimo aspetto Weinrich dedica le pagine forse più intense del libro. La clausola del "perdonare e dimenticare", inclusa nei trattati di pace sin dall'antichità, ma già sentita come un problema etico nei drammi storici di Schiller, sarà invalidata - sottolinea Weinrich - dalle atrocità dei grandi conflitti novecenteschi. A partire da Norimberga "tutti i 'crimini contro l'umanità', in particolare nella forma del genocidio, non solo sono esclusi da ogni amnistia, ma non possono nemmeno cadere in prescrizione". Né amnistia né amnesia dunque, ma il dovere talvolta insostenibile del ricordo. Elie Wiesel, Primo Levi, Jorge Semprún, Saul Bellow: altrettante testimonianze di questa lotta con la memoria e con l'oblio imposta dalla storia.
Se l'ordine cronologico costituisce la trama del volume, a esso si intrecciano fili tematici che ne rompono la linearità, facendo sorgere osservazioni e confronti imprevisti: come il paragone tra il perdono dell'adultera nel Vangelo e la condanna di Effi Briest nell'omonimo romanzo di Theodor Fontane; o come la constatazione - suggerita da ricordi e dimenticanze d'amore di Casanova - dell'assenza di una scrittura dell'oblio al femminile; o, ancora, come la serie tragicomica - da Valerio Massimo a Milan Kundera - di "casi fortunati e sfortunati" di smemoratezza. A movimentare ancor più il percorso contribuisce l'approccio estremamente duttile di Weinrich, che attinge materia di riflessione dalla letteratura, dalla filosofia, dalla storia delle culture europee - certo - ma anche dall'aneddotica e dalla vita di singoli personaggi. Perché Kant annotò su un foglietto che doveva assolutamente dimenticare il nome del suo domestico Lampe? Esiste un legame tra l'Ode all'oblio che il venticinquenne Federico, futuro re di Prussia, scrisse in francese nel 1737, e la terribile scena della decapitazione dell'amico e complice di diserzione Hans Hermann von Katte alla quale il padre, sette anni prima, lo aveva costretto ad assistere? E chi era il "masticatore" di Parigi che durante il Terrore salvò dalla morte tante persone triturando fra i denti i fogli con gli atti d'accusa e ispirò a Victorien Sardou il dramma Thermidor?
Questo intreccio di temi e di tempi, questa evocazione di vite vissute e di esperienze liriche e narrate conferisce a Lete l'andamento felice di un vagabondaggio metodico, di un'erranza ben regolata, capace di trascinare il lettore come un brillante racconto di avventura.
Vero "uomo per tutte le culture", Harald Weinrich è considerato il massimo erede della grande tradizione tedesca di studi romanzi - incarnata da Leo Spitzer, Ernst Robert Curtius, Karl Vossler e Erich Auerbach - che alle scienze fisiologiche allea la storia delle letterature e quella delle idee, spaziando agilmente fra tempi e luoghi diversi. Per Weinrich, nato nel 1927 a Wismar, nella Germania nordorientale, la scintilla della vocazione scoccò a diciassette anni, quando era prigioniero di guerra in Francia, grazie all'incontro con un altro giovanissimo soldato, il futuro cardinale Decourtray, primate delle Gallie. Allievo di Heinrich Lausberg e di Hugo Friedrich, Weinrich intraprese la carriera di docente all'Università di Münster.Ha quindi insegnato a Kiel, Colonia, Bielefeld, Monaco, oltre che ad Ann Arbor e Princeton negli Stati Uniti, ed è stato titolare della "cattedra europea" al Collège de France, di cui ora è professore emerito.
Sin dall'inizio i suoi interessi si estendono dalla Francia alla Spagna, dall'Italia al Portogallo, dal Medioevo al Novecento; dalla linguistica testuale alla stilistica alla storia del pensiero: a una tesi di dottorato sull'ingenium nel Don Chisciotte faranno seguito ricerche sulla lirica francese antica e moderna, sulle funzioni dei tempi verbali, sull'ironia, la politesse, la "memoria linguistica" europea, per citare solo alcuni degli innumerevoli temi trattati.
Tipico per la trasparenza dello stile e la capacità di centrare gli argomenti con un piglio personale e anticonformistico, Weinrich ha intercalato i suoi numerosi volumi con oltre duecento articoli e saggi, ponendo spesso l'accento sulle problematiche interdisciplinari e non disdegnando di affrontare argomenti di viva attualità come la didattica delle lingue straniere e l'informatica.
Weinrich è membro di varie Accademie in Germania e all'estero, fra cui quella della Crusca, e in Italia ha insegnato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Delle sue opere maggiori, tradotte anche in giapponese, sono state pubblicate dal Mulino Metafora e menzogna: la serenità dell'arte (1976), Tempus. La funzione dei tempi nel testo (1978), Vie della cultura linguistica (1989), e da Feltrinelli Lingua e linguaggio nei testi(1988). Di Lete uscirà una versione francese in autunno e sono previste edizioni in Spagna, Giappone e Stati Uniti.
(B.P.)
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