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recensione di Bianco, L., L'Indice 1998, n. 8
La critica rock", diceva Frank Zappa, "è fatta da gente che non sa scrivere che intervista gente che non sa parlare per gente che non sa leggere". Chiunque pratichi un poco le riviste di musica pop infatti sa bene come in quelle pagine il gergo specialistico la faccia da padrone indiscusso: recensioni infarcite di anglicismi il cui senso risulterebbe oscuro perfino a uno specialista di linguaggi cifrati, apodittiche affermazioni sui migliori dischi del mese, della stagione, della decade, dell'intera storia dell'occidente cristiano e oltre; malcelate insofferenze e ridicoli entusiasmi destinati a smorzarsi (giustamente) in quindici giorni. Il fatto è che nel pop, come nel calcio, ciascuno ha da dire la sua: ma chitarristi e capocannonieri vanno e vengono a ogni cambio di luna, alternando prestazioni loffie e grandi performance, e rendendo così impossibile la vita a chi, oltre a dover già sobbarcarsi l'arduo compito di ragionare per iscritto di qualcosa che è essenzialmente auditivo e fisico come il pop, deve anche star dietro al ritmo frenetico e bizzarro delle novità.
Il rock, si sa, è un universo vasto e sfilacciato, una rete piena di buchi attraverso i quali si intravedono le ragioni dell'economia e quelle dell'angoscia giovanile, l'energia demente e frenetica dei Ramones e la mozartiana felicità di certe pagine giovanili dei Beatles, la spocchia intellettuale e la ciarlataneria, le ricerche sperimentali più estreme e la pigra acquiescenza ai canoni consolidati: il bello, però, è che tutti questi elementi spesso convivono, e sono costretti a farlo nello spazio dei pochi centimetri quadrati di un vinile, di un compact-disc o dei tre-minuti-tre che costituiscono la misura aurea della canzone. Né bisogna dimenticare le istanze della filologia: il pop sarà anche frivolo ed effimero quanto si vuole, ma i suoi estimatori sanno essere ossessivi e agguerritissimi collezionisti e collazionatori: per restare ai Beatles, che dire della splendida, inesorabile e inesausta critica delle varianti che inevitabilmente si scatena ascoltando le tre versioni di" Strawberry Fields Forever" pubblicate in "Anthology II" (Emi, 1995)?
Difficilissimo, dunque, scrivere di musica pop: così come è difficile scrivere di calcio, di cucina, di pittura, sempre che ci si voglia rivolgere a un pubblico più ampio di quanto non siano gli specialisti, gli studiosi, gli ultrà sfegatati per i quali tutto fa brodo: discografie ipercomplete e ricette puntigliose, schede tecniche e deliri entusiastici. I paesi anglosassoni (dove questa, costituzionalmente, sta di casa) possono vantare alcuni ottimi esempi di critica rock; primo tra tutti l'incandescente Lester Bangs ("Psychotic Reactions and Carburetor Dungs", Serpent's Tail, 1996), che trova nel rock l'ideale colonna sonora per accompagnare la propria vita di eccessi, vissuta costantemente a fior di pelle; oppure l'attento John Savage che in "Punk" (Arcana, 1994) ricostruisce attentamente il clima sociale e culturale dell'Inghilterra degli anni settanta intrecciandolo con la storia dei Sex Pistols e del Punk.
E in Italia? A parte certi stimolanti interventi su qualche rivista (ultimamente la più interessante è "Rumore"), nel nostro paese la scrittura rock è, a partire dal 1973, indissolubilmente legata al nome di Riccardo Bertoncelli. In quella data infatti uscì "Pop Story", il primo volume sul pop di ampio respiro scritto in Italia, il primo libro che parlava di musica leggera senza usare un linguaggio eccessivamente carbonaro. Da allora, e fino a oggi, Bertoncelli ha disseminato interventi, articoli, prefazioni e quant'altro in molte riviste musicali (e non solo musicali) italiane: "Gong", "Linus", "Rockerilla", l'inserto "Musica!" di "Repubblica". Ha curato collane per Arcana e Giunti, ha diretto programmi radiofonici. Questo "Paesaggi immaginari" viene finalmente a mettere un poco d'ordine in una produzione tanto vasta quanto frammentata, anche se lo fa in modo non del tutto canonico, sin dalla struttura.
Mescolando editi e inediti, Bertoncelli ripropone qui alcuni "greatest hits" della sua quasi trentennale attività, ma lo fa alla maniera dei musicisti: non solo perché i capitoli in cui il libro è diviso vengono presentati come altrettanti cd, ma perché i singoli pezzi sono stati sottoposti a un trattamento di manipolazioni, revisioni, o, per dirla con l'autore, "remixaggi" tali da renderli appetibili anche a chi avesse seguito con pazienza e attenzione il dipanarsi della produzione di Bertoncelli negli anni. Ma il lettore ideale dell'opera è piuttosto il profano, il semplice curioso disposto a lasciarsi incantare dalle molte schegge di questo caleidoscopio rock.
Bertoncelli inizia scherzando proprio con i santi: il primo capitolo è tutto per i Beatles, e spicca in particolare il gustoso saggio gastronomico in cui Lennon e McCartney diventano una stramba ditta di pasticcieri e ogni canzone un dolce diverso, con menzione speciale per il "carciofo candito" di "A day in thelife"; ma si fa apprezzare anche una risposta a un apocalittico articolo di Guido Ceronetti sull'atroce questione della presunta influenza dei Beatles sulla "family "di Charles Manson all'epoca della strage di Bel-Air. Di simili esercizi di stile, il libro è pieno: un "pastiche" landolfiano rende conto bene della fortuna dei Pink Floyd nell'Italia degli anni settanta, mentre Papa Luciani, il papa che ha sorriso una sola estate, recensisce i dischi di Patti Smith. C'è spazio anche per la burla: davvero efficace, per chi in quegli anni c'era, l'articolo del 1975 che, letteralmente, inventa un disco di Crosby, Stills, Nash e Young, con tanto di falso reportage di un incontro con gli autori: pare che all'epoca molti "aficionados "delle quattro superstar, prossime alla beatificazione, ci fossero cascati realmente, costringendo la casa discografica a una secca smentita ufficiale.
In altri casi, Bertoncelli mette la propria penna e il proprio gusto per l'aggettivo inatteso e l'accostamento inusuale al servizio di musicisti poco conosciuti e senz'altro piuttosto ostici, e allora la mimesi tra stile e oggetto della scrittura diventa perfetta: nessuno come lui ha saputo commentare il rock patafisico e stralunato degli americani Pere Ubu, mentre stupisce nel libro l'assenza di quello che è il vero maestro dello scrittore, il suo guru, l'angelo custode del bizzarro più volte evocato: Frank Zappa. Forse un bel collage di pezzi zappiani avrebbe meglio illustrato la qualità della scrittura di Bertoncelli, ma, si sa, non si può avere tutto. Meno interessanti e, forse, più prevedibili le stroncature (l'odiato David Bowie tra i bersagli preferiti, ma anche Sting, Springsteen e un inaspettato Aldo Busi); così come, probabilmente per una questione generazionale, Bertoncelli sbriga un poco troppo frettolosamente la recente dance music elettronica, tendendo a fare di tutta l'erba un solo fascio di microchip.
Anche la musica italiana viene sfiorata, e qui il discorso si fa, in apparenza, spinoso. La fama di Bertoncelli, infatti, è stata a lungo legata a un icastico verso di Guccini, che nella celeberrima "L'avvelenata" lo accusava, senza mezze misure, di "sparare cazzate". Qui viene raccontata tutta la storia, e se non fosse rigorosamente vera si penserebbe a un altro scherzo giocato da Bertoncelli ai lettori e allo stesso Guccini. Una recensione ruvida scritta nei primi anni settanta aveva fatto traboccare il vaso dell'ira di Guccini, che si vendicò alla sua maniera, prima nei concerti e poi su disco. Seguirono spiegazioni, incontri, una lunga amicizia: e oggi pare che, ai concerti gucciniani, il nome dello scrittore venga spesso e volentieri sostituito con quello di Berlusconi; "il quale", commenta Bertoncelli, "al di là di tutto è quadrisillabo anche lui".
Ma ancora più divertente il trittico dedicato a Lucio Battisti, con puntigliosa esegesi delle liriche: "Lucio Battisti è un maniaco, un virtuoso, un ultrà della rima baciata". E che dire dell'incontro tra John Cage e Mike Bongiorno? Un altro caso in cui la realtà supera anche la più borgesiana delle finzioni di Bertoncelli, con il compositore (espertissimo micologo) che risponde ai più efferati quiz di "Lascia o raddoppia" con Bongiorno che bonariamente ("ahi ahi ahi signor Cage!") lo redarguisce sulla sua musica "stramba, strambissima": "Era meglio che la sua musica andasse via e lei restasse qui!" Ecco, forse proprio questa evocazione spiritica degli occhiali di Bongiorno e del sorriso di Cage basterebbe a giustificare il sottotitolo originariamente pensato per il volume dal Gianni Brera dei riff di chitarra, dal Roberto Longhi del pop: "un'ipotesi di letteratura rock".
Bertoncelli? Proprio quello della famosa canzone di Guccini? Inevitabilmente ci si pone subito questo interrogativo guardando il volume. Interrogativo banale, se vogliamo, scontato, che accompagna l'autore inesorabilmente, quasi come una condanna. E Bertoncelli non si tira indietro, affronta l'antica querelle nell'articolo La vera storia dell'Avvelenata (apparso su Inedito nel 1997). Si capisce così la storia (che non vogliamo anticipare per lasciare un po' di suspense...) di quel rapporto in realtà non così avvelenato tra il critico musicale e il cantautore più famosi degli anni Settanta e oltre. Tutto il volume, in effetti, è una curiosità, un tuffo in anni passati, un modo per capire, anche a posteriori, la musica che abbiamo ascoltato appassionatamente, con gioia o con disperazione, in momenti intensi, felici o meno, ma comunque la musica che ci ha segnati e che ci accompagnerà ancora nel ricordo, nella nostalgia. Si dispiega lentamente la colonna musicale degli anni della contestazione e del rock duro: da David Bowie ai Grateful Dead, da Bob Dylan a Lucio Battisti, passando da Patty Smith, i Cream o John Cage... In un collage di articoli scritti in periodi storici differenti (a caldo o con una riflessione successiva), si dipana così una vera e propria storia del rock, una bella antologia di testi, interventi, articoli, racconti musicali, e altro, apparsi nel corso di circa trent'anni su giornali, specializzati e non, italiani: uno spaccato della realtà di periodici importanti nel panorama musicale degli ultimi decenni da Rockerilla a Linus, Alter Alter, Jam, Gong, Musica 80, Muzak, tra i tanti.
Un'ultima curiosità: perché un box di 5 Cd, nel sottotitolo? "I musicisti ogni tanto amano dividere i loro album in 'capitoli' o redigere degli 'indici', rubando modi e lessico a chi scrive. Non vedo perché non si possa fare altrettanto dall'altra parte", scrive Bertoncelli nell'Introduzione. Peccato che non sia stato possibile allegare davvero i brani musicali di cui l'autore parla, ma certamente, pescando nei vecchi dischi di vinile e nelle cassette di casa, troveremo modo di fare anche la nostra personale colonna sonora alla lettura.
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