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Coe si lancia in esauriente ritratto dell'Inghilterra degli anni 60, che non riesce però ad eguagliare le vette toccate con La fAmiglia Winshaw, pur restando un'ottima lettura.
Ingredienti: quattro teenager inglesi alle prese con scuola, musica e ragazze, inseriti in famiglie alle prese con lavoro, scioperi e scappatelle, inseriti in uno stato alle prese con crisi, attentati e trasformazioni sociali. Consigliato: a chi vuol assaggiare atmosfere tipiche dell'età giovanile (paure, speranze, distrazioni e interessi), a chi vuol respirare suoni ed emozioni tipiche dell'Inghilterra anni '70.
bello...bello come tutti i libri di Coe...quando si legge qualcosa di questo scrittore si sa in partenza che non si può rimanere delusi!!!
Recensioni
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Jonathan Coe, già critico cinematografico e saggista del "Guardian", è ormai un personaggio di culto per le giovani generazioni. Nella recentissima tournée di presentazione del suo ultimo libro tradotto in italiano, La banda dei brocchi, è stato ricevuto da un pubblico femminile giovanissimo come fosse una rockstar. Quarantenne, alto, serio, riservato, Coe è naturalmente ben lungi dall'essere un eroe pop: è il suo pubblico che lo vede così.
Perché? Forse perché Coe sa scrivere di cose molto serie con un'ironia, un distacco formale che non possono non renderlo caro a una generazione irrimediabilmente stanca di sorrisi televisivi, di volgarità istituzionali, di ambiguità politiche; e forse perché sa affrontare la recente storia britannica come la conosce chi l'ha vissuta nella quotidianità del suo farsi, e dunque da semplice cittadino, senza la pretesa di capirla e giudicarla, ma pagandone ogni scotto in prima persona. Non saranno delle adolescenti ad aver vissuto la stagione prethatcheriana degli anni settanta, ma i loro genitori sì. Ed è forse per questo che la sua narrativa trova consenso fra numerosi rappresentanti delle più diverse generazioni.
Come che sia, Coe si è da anni messo al lavoro per stilare una sua piccola grande recherche nel tentativo di recuperare e descrivere la fin de siècle britannica. In La banda dei brocchi, appunto, gli anni settanta, in La famiglia Winshaw (1994; Feltrinelli, 1995) gli anni ottanta, e presto - ha avvertito Coe - rivedremo i protagonisti della "banda" ormai adulti negli anni novanta.
Per l'esattezza, come dice lui stesso, La banda dei brocchi è solo metà del libro che avrebbe voluto scrivere. Per ragioni editoriali si è limitato al decennio che si diceva, ma ha chiesto al suo editore (e ottenuto) che nell'ultima pagina venisse annunciato il seguito delle avventure dei suoi personaggi. Non è una pratica molto comune (ricordiamo una dozzina d'anni fa quel Texasville che riprendeva la storia dei protagonisti di L'ultimo spettacolo trent'anni dopo nella splendida scrittura di Larry McMurtry) in una civiltà che ha perso il senso del fluire e della continuità della storia. Ma Coe non è certo un rétro: la costruzione del suo ultimo romanzo rende il dovuto omaggio al crollo non solo delle regolari strutture temporali ma anche dei tutto sommato ben educati rallentamenti e accelerazioni degli scrittori modernisti, attingendo peraltro al ricchissimo magazzino fornito proprio dal cinema: zeppo di jump cuts, di improvvisi salti cronologici, di formidabili montaggi alternati (addirittura nella costruzione dei dialoghi), il romanzo è idealmente pensato come una sceneggiatura. Non nella forma, evidentemente, ma nella perfetta struttura a richiami, dove quel che accade - poniamo - a taluno nelle prime cinquanta pagine trova riscontro in ciò che accade ad altri in situazioni analoghe nelle ultime cinquanta.
La capacità di Coe nel combinare tecniche aggiornatissime con espedienti della narrativa più classica è sorprendente. Le innumerevoli volte che abbandona un qualche suo personaggio nel momento di maggior tensione e aspettativa assomigliano non poco alla tradizione cinematografica del cliffhanger, del film che tronca la sua narrazione mentre l'eroina è aggrappata a strapiombo a una roccia sotto la quale attendono famelici venti coccodrilli mentre verso di lei si sta affrettando urlante un'intera tribù di cannibali. Ma d'altro canto, si tratta di una tecnica che il cinema ha imparato dal feuilleton ottocentesco, quando nel porto di New York la gente si assiepava per comprare la copia del giornale appena giunto da Londra, nel quale finalmente si sarebbe potuto leggere come la piccola Dorritt si era cavata d'impaccio ancora una volta (e del resto l'ombra di Dickens si incunea volentieri nel testo: il linguaggio del professore che corteggia la madre di un allievo non è lontano dagli accenti di Mr. Micawber).
La piccola Dorritt, peraltro, non doveva vedersela con i coccodrilli. E nemmeno i protagonisti di Coe, i cui reiterati pericoli sono di norma inflessibili professori inglesi, adulterii parentali, titubanti corteggiamenti e altra piccola umanità. Ma vi sono anche azzardi di maggiore momento, come la bomba dell'Ira che tronca un amore bellissimo e grava come un'ombra indelebile su una delle famiglie dei giovani protagonisti.
La crudeltà della storia nei confronti della tenerezza del quotidiano, anzi, è uno dei temi più evidenti del romanzo, che non si perita di ritornare indietro al tempo dell'invasione nazista della Scandinavia per ribadire la tesi. E quand'anche non sia la storia a infierire sugli amanti, il caso o il destino o forse Dio ne assumono il ruolo, talché Benjamin, l'esponente più timido, introverso e poetico della banda titolare, modellato sull'autore stesso, verrà falciato (il romanzo lo lascia intendere senza informazioni circostanziali) da una malattia o da un incidente proprio quando, in piena tradizione Bildungsroman, è ormai in grado di voltarsi indietro e sorridere al ricordo delle vicissitudini passate grazie al coronamento di un sogno d'amore coltivato per anni e apparentemente senza speranza.
Ma attenzione, il livello intimistico del racconto è soltanto il filo che lega le vicende individuali dei quattro studentelli di Birmingham, la vita che scorre loro attorno e che troppe volte essi non sanno intendere. La vera interpretazione mancata, tuttavia, è quella del senso storico-sociale di quegli anni, che nella penna di Coe si presentano come puntuali prolegomeni all'arrivo del governo Thatcher. In uno scenario che ricorda in parte certi lungometraggi del Free Cinema fra i cinquanta e i sessanta (Anderson, Reisz, Richardson) - ma con un quadro della classe operaia e piccolo borghese britannica che ce la restituisce ben più consolidata e, ahimé, ben più conservatrice - osserviamo questi anni non più grigi ma " brown ", come dice l'autore stesso. Viene in mente la centrata definizione di un altro intellettuale, Lewis Mumford, per il quale il titolo del suo studio delle arti in America, " brown decades ", alludeva a una condizione dello spirito nella quale "il mondo interiore colorava il mondo esterno. L'atmosfera era a volte men che tragica; ma in fin dei conti, non era felice". Coe infatti stempera ogni occasione di tragedia nel cromatismo marrone della "non felicità". Dopotutto non è una trovata, ma una sorta di costante di tanta narrativa britannica degli ultimi vent'anni (è una suggestione cromatica, ad esempio, non estranea a McEwan) e comunque esprime bene il periodo che preparò l'entrata in scena della Thatcher.
Ma il libro ha a suo modo anche un messaggio di speranza. Chiuso com'è nella cornice che vede i figli di due dei personaggi incontrarsi e parlare a Berlino all'inizio degli anni Duemila (il romanzo, anzi, è in pratica il flashback dovuto al racconto di uno di loro), da quel punto di vista privilegiato - che rispetto al romanzo è quello del futuro - l'era Thatcher sembra lontana un secolo, e il lettore, dopo un bagno di 350 pagine nell'Inghilterra delle lotte sindacali alla Leyland e sapendo che di lì a poco quell'epoca sarebbe finita sotto il tallone della "signora di ferro", si ritrova come Dorothy dopo l'uragano in una terra tranquilla e felice, o comunque moderna. È il modo che Coe ha divisato per esorcizzare lo spettro incombente di quegli anni e per dirci che tutte le Thatcher del mondo alla fine passano. Facciamone tesoro.
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