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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 2012
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
E' uno di quei libri che non vorresti finire mai....perché la sera prima di addormentarti ti manca .
Libro altamente educativo, appassionante ed emozionante. L'incontro di due mondi molto diversi che riescono a sfondare le barriere dei pregiudizi e delle difese sociali per toccarsi nei sentimenti e capire di non poter fare a meno l'uno dell'altro. Questo libro è un regalo alla propria anima, scuote dentro, fa riflettere sul nostro modo elitario di rapportarci con il mondo e fa affiorare consapevolezze spesso sconosciute.
Mai, il considerando il tema e leggendo la presentazione del libro, avrei immaginato di trovarmi di fronte a pagine così appassionanti, in grado di ritardare l’ora in cui viene spenta la luce. Il libro parla di due donne, opposte per tantissimi aspetti: vincente, piena di vitalità, moderna l’una; ultima, sorpassata e dimenticata l’altra. Da questi contrasti, vissuti senza sottrarsi e censurare nulla, nasce per Jane Sommers, e per i lettori della sua storia, una rilettura di molti aspetti della vita, che portano all’interrogativo sul suo significato. Ho particolarmente apprezzato il carattere combattivo delle due protagoniste che, invece di rassegnarsi a eventi e riflessioni, lottano per tutte le pagine per trovare dignità al proprio destino.
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1986)
recensione di Piccone Stella, S., L'Indice 1986, n. 6
Non sappiamo nulla dei morenti, la ricerca nell'ambito della morte è soltanto agli inizi. Resta molto da fare per capire meglio ciò che sentono i moribondi. Poco compresa è l'esperienza dell'invecchiare vissuta in prima persona.
Queste frasi di Norbert Elias e l'esortazione a ricomprendere i fenomeni ultimi della vita nella coscienza quotidiana e nelle relazioni umane da cui li abbiamo esclusi, tornano in mente leggendo il romanzo di Doris Lessing, che sembra una straordinaria incarnazione narrativa di quel discorso, e gli offre in parte una risposta. Jane Somers decide di partecipare all'agonia e alla morte di una vecchia donna per i precisi motivi di cui parla Elias: smettere di guardare altrove, non sottrarsi, vedere, conoscere. Le ultime pagine, che danno conto di questa esperienza limite, mi sono parse le più belle del libro. Che cos'è una morte vista da vicino? Smisurata, casuale, incomprensibile. Il fascino della narrazione sta nell'accettare questi dati disordinati, nel non ricomporre. Osservato col massimo della disponibilità umana il quadro finale della vita resta incoerente, opaco.
Quasi nessuna delle aspettative con cui riprendiamo contatto, da analfabeti, con la mortalità nostra e degli altri, si rivela sensata. Non quella dell'identificazione o dell'empatia. Jane cerca di immaginarsi stesa e ansimante su un letto d'ospedale ma non riesce ad avere paura per sé; cerca di vedersi in lotta accanita per l'esistenza a novantadue anni come Maudie, ma non ne è letteralmente capace. Passa in rassegna varie vie razionali di fuga. L'eutanasia potrebbe costituire un'uscita, risparmiare il dolore? Ma Maudie al dolore non fa caso affatto, vuole solo vivere. La condizione di disuguaglianza tra il vivo e il morente rende ogni negoziazione impossibile. Quanto darsi? Quanto risparmiarsi? Le due amiche non riescono a mettersi d'accordo: da una parte c'è una possessività senza fine ("portami via con te. Perché no?"), dall'altra un altrettanto intransigente istinto di sopravvivenza. Non è chiaro neppure in che modo offrire conforto. Gran parte dei conforti offerti sono gesti di superiorità e Maudie li rifiuta tutti. Jane deve accettare la propria aggressività e ammettere che vorrebbe che Maudie morisse in fretta. Una sola emozione le unisce, la rabbia contro la casualità delle cose che accadono, della vita e della morte.
Dunque l'idea che dopo aver superato il tabù che ci protegge, possiamo penetrare la soggettività del morente, capire ciò che prova, che forse proveremmo noi, e giungere a formulare "la diagnosi dell'esperienza soggettiva attraverso cui gli uomini che invecchiano e muoiono vivono questa loro trasformazione" (Elias), è un'illusione. "Il Diario di Jane Somers" mette in scena la traiettoria di questa illusione. È un piccolo colpo al nostro semplicismo laico. Intendiamoci: è un occhio molto laico quello della narratrice. Ma non al punto da sopprimere le domande che non hanno risposta: l'esperienza della morte altrui (e propria) può essere vissuta se si rinuncia a credere che la si possa sublimare con una formula assoluta (religiosa); ma anche se si rinuncia a credere che la si possa dominare riducendola a misura umana. È un'impresa che ha dei limiti. Spostare in avanti i limiti, anche di poco, richiede una grande prestazione psichica.
Quella di cui ho parlato finora è la conclusione del "Diario di Jane Somers". Ma il racconto ha anche risvolti divertenti e mordaci. Per esempio quando attacca i giovani. È chiarissima la posizione polemica dell'autrice: smettiamola di occuparci eternamente dei figli, che si arrangino da soli, c'è molto più da imparare dai vecchi. Jane è una donna senza figli - in seguito si arrenderà alla pressione irresistibile di una nipote che vuole diventare sua figlia adottiva - ma circondata da maschi e femmine della nuova generazione, negli uffici redazionali della sua rivista, nella famiglia di sua sorella. I quali si aggirano come piccoli robots senza antenne, ambiziosi, egoisti e rompiscatole. Oppure incoscienti. In fondo è proprio la giovane infermierina ad accelerare la morte di Maudie in ospedale, per distrazione.
Il rovesciamento dei valori correnti e voluto. Si ha l'impressione, leggendo, che un'immaginazione reattiva, pronta, abbia lavorato febbrilmente in sincronia con i grandi sommovimenti demografici della nostra epoca. E che mettendo l'una accanto all'altra una donna di cinquant'anni e una di novantadue abbia indicato una nuova forma, nascente, della nostra vita relazionale, come una potenzialità. È lunghissimo il tratto di vita che percorriamo in parallelo con persone più in età di noi, oramai. Se ce ne accorgessimo ci renderemmo conto che la loro presenza è una componente della nostra esistenza, altrettanto varia e ricca quanto altre presenze. Ma il discorso non è così semplice. Colpisce un dato nella trama del romanzo che non si trova lì per caso. La vecchia Maudie è una persona tra mille, incontrata da Jane in farmacia. Non ha legami con lei n‚ appartiene al suo mondo. Il loro rapporto è come un ponte gettato felicemente sopra una grande distanza. Forse questo corrisponde a un di più di sensibilità politico-sociale che l'autrice voleva imprimere al racconto, dove ha introdotto una dopo l'altra una serie di donne anziane affidate ai servizi di assistenza. Ma risponde anche a una ragione profonda, che a me pare la più acuta delle sue intuizioni. Maudie non è la madre di Jane. Jane Somers riesce a "vedere" l'intensa vitalità di Maudie perché non è sua madre, anzi dopo la morte di sua madre (che ha trascurato). Qualcosa aveva reso impraticabile l'intimità più ovvia, la più naturale secondo la morale comune.
Nel grande progetto abbozzato da Elias e che la narratrice senza saperlo fa proprio, la folla degli anziani è anonima. Nella realtà, nella quale donne mature (di donne si parla nel "Diario") si affiancano per anni a madri anziane, la scelta culturale di farne un vero dialogo è molto razionale - ma non risponde sempre agli istinti e alle spinte profonde. Tutta la prospettiva di come ridare significato a un vivere collettivo e individuale di lunga maturità e vecchiaia condivise è intensamente complicato da questo fatto.
Nel romanzo viene spezzato un altro tabù, non con pari successo. La perdita di controllo delle funzioni naturali è un fenomeno dell'organismo che invecchia e s'ammala di cui preferiamo non parlare. L'incontinenza, incontinence secondo l'eufemismo anglosassone, è relegata dietro le quinte della vita sociale. Nella vecchiaia le funzioni dell'intestino balzano in primo piano e poiché sono coperte da un tabù diventano più gigantesche e incombenti di altre necessità primarie, come il cibo o il respiro. Affrontare e parlare di questo forse corrisponde a un nostro bisogno urgente e cupo. "Orrore orrore orrore" è la parola che Maudie ripete più spesso, come un esorcismo. Certo, il "Diario di Jane Somers" si muove a tappe forzate per spezzare il tabù. Le disfunzioni organiche sembrano far regredire la persona umana a uno stato animale; ma in realtà sono anche vissute, sofferte. S'intuisce che la sensibilità dell'autrice è come scossa, agitata dall'idea di reintegrare anche questo aspetto del vissuto nel linguaggio e nella materia della narrazione.
Ci riesce? Non saprei. Il risultato assomiglia a uno schiaffo in faccia più che alla vibrazione di una corda nuova. Le scene in cui la miseria fisica occupa tutto lo spazio sembrano tappe di una presa di coscienza, e le prese di coscienza, si sa, sono sempre un po' dogmatiche. L'inflessibilità con cui l'iperconsapevole Jane Somers si accinge a piegare i propri sensi di ripugnanza assomiglia di più a quella delle sante medievali che non alla delicatezza delle filantrope vittoriane di cui la sua autrice fa un meritato panegirico.
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