Qualcuno deve aver detto agli scrittori francesi che il mondo, in qualche modo, può andare a finire dentro una frase: di una sola, interminabile frase è infatti composto Zona, lo straordinario romanzo di Mathias Énard che Rizzoli ha pubblicato l'anno scorso, e di una sola frase è fatto il testo di questa Storia di un oblio, quarta opera (seconda per Feltrinelli) di Laurent Mauvignier tradotta in italiano. Mauvignier, che ha quarantacinque anni, è uno degli autori più interessanti della nuova scena d'oltralpe, e si inserisce in quella nuovelle vague della prosa francese che racchiude autori molto diversi tra loro, ma che condividono l'idea che fare letteratura sia anche ragionare sulla forma di un testo: è così per un altro Laurent, Binet (l'autore di HHhH), e per il succitato Énard. Storia di un oblio è un racconto basato su un fatto di cronaca realmente accaduto nel 2009 a Lione: un uomo entra nel supermercato di un grande centro commerciale, beve una birra tra gli scaffali (dunque senza pagarla), viene fermato da quattro addetti alla security che lo portano in uno stanzino sul retro e lo massacrano di botte, uccidendolo. Mauvigner sposta il set della narrazione in una Parigi che non viene quasi mai nominata né descritta, e ripercorre l'episodio in tutta la sua crudezza e brutalità. Solo che e qui stanno la novità e la bellezza del testo la storia non ci viene raccontata, per così dire, in presa diretta, ma a posteriori: il libro, infatti, è il monologo (andato tra l'altro in scena nell'aprile di quest'anno presso il teatro della Comédie-Française) di un narratore di cui il lettore non conosce il nome né la professione; la voce narrante si rivolge al fratello della vittima, che per tutto il tempo rimane ad ascoltare in silenzio e diventa, in qualche modo, l'alter egodel lettore. Come lui, noi che leggiamo veniamo a conoscenza dei particolari dell'omicidio, delle sue conseguenze legali, dell'aspetto degli assassini, della situazione economica disperata del morto, che, per inciso, non ha nemmeno lui un volto e un nome. Si ha il sospetto che la voce narrante possa essere l'avvocato dell'accusa o un poliziotto, perché conosce molti particolari della vicenda e degli individui coinvolti che altrimenti difficilmente potrebbe sapere; di fatto, il racconto del pestaggio prende poche pagine, perché la voce si concentra sulle domande che la violenza senza senso pone e sulla vita della vittima. Per questo, chi sia davvero il narratore non è importante: ciò che conta, ciò per cui questo libro sembra essere stato scritto, è il flusso inarrestabile di parole e di virgole che ne segnano il passo e, allo stesso tempo, la riflessione sotterranea sulla violenza e sulla figura anonima del morto l'ultimo di una serie di "vinti" che l'autore costantemente mette in scena nei suoi libri che lo muove. L'unica frase che compone Storia di un oblio è infatti la risposta di Mauvigner alla rabbia e al senso di impotenza che si prova davanti alla barbarie: come raccontare una violenza così brutale e priva di senso? Creando un impasto vocale magmatico che non ha inizio né fine (la prima parola è in minuscolo ed è significativamente "e", l'ultima, "adesso ", lascia intravvedere una possibile continuazione della narrazione), pieno di salti logici, di ritorni sulla stessa scena e di prolessi. L'ipotassi esasperata e incalzante crea l'ambiente linguistico e sonoro di una cronaca che racconta qualcosa di cui sfugge il senso. Allo stesso tempo, e proprio per sottolineare l'assoluta gratuità della violenza e la facilità con cui oggi si muore, Mauvigner entra nelle teste dei quattro aggressori, nessuno dei quali secondo il narratore aveva intenzione di fare ciò che ha fatto: è la dinamica del branco che li sovrasta a far loro compiere un gesto inusitato. Nella mezzora del pestaggio, i quattro si perdono nell'oblio del titolo: vogliono spaventare la vittima e finiscono per trucidarla e arrabbiarsi con lei per il sangue e per l'immobilità. Da un doppio oblio è preso anche il morituro: è povero e non sa reagire alla povertà; non cerca lavoro, ma chiede prestiti al fratello/ascoltatore; entra nel supermercato abbagliato dalle merci e ruba la lattina senza rendersene conto: di fatto non ha l'intenzione di rubare. Egli vive l'aggressione stessa come se appartenesse a qualcun altro: non reagisce, non protesta, non prova a parlare o a fuggire. Prende i primi calci e i primi pugni sperando che finiscano presto, e muore quasi senza accorgersene. Mentre subisce, sente svanire dal proprio corpo una forza che, in realtà, non ha mai avuto. A loro modo, tutti i personaggi sono dunque coinvolti in un vortice di impotenza: il fratello muto, i quattro assalitori "loro malgrado", il ladro/vittima e perfino il narratore, che violenta la lingua con cui racconta perché non ha la forza di cambiare un fatto per cui non trova pace né risposte. Andrea Tarabbia
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