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Anno edizione: 2011
Anno edizione: 2014
Anno edizione: 2013
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Svegliarsi una mattina nella propria casa, e come ogni mattina, iniziare l'avventura quotidiana della stagione, degli incontri consueti o desiderati, nella comunità di famiglie, di terra, di ritualità che ci appartiene; all’improvviso più nulla di tutto questo. Essere costretti a nascondersi, tacere, fuggire, a “serrare le mascelle”, perdere, perdere tutto, dalla dignità alla identità. Allora resistere, con ogni mezzo, accampati, violentati, affamati, seppelliti vivi, è imperativo dolorosissimo, è reazione vitale di ogni fibra dell’essere . “Ogni mattina a Jenin” è una lettura da cui non si può prescindere, che ci fa “fare i conti” con la storia di generazioni di palestinesi costretti a diventare dei senza patria, alimentare la furiosa rabbia e la tristezza estrema. Questa narrazione ci proietta alla storia e cronaca quotidiana della città emblema, Gerusalemme, la città che sa trasmettere, nonostante “il passato ardente e burrascoso”, dolcezza e umiltà, “desideri segreti”. In questo spazio si snodano i diversi filoni narrativi che ti avvolgono e ti travolgono, facendoti attraversare la storia di un conflitto mai risolto e penetrare dentro le cicatrici di un popolo e di ogni singolo personaggio. E il conflitto non è soltanto quello storico, ma quasi sempre interiore, di uomo, padre, donna, madre, figlia, che “squarcia” vesti, anime, volti. Libro struggente, intenso, che si radica nell’anima, come l’amicizia della protagonista Amal con Huda, come la narrazione della famiglia di Hassan e Dalia, del destino tragico dei due fratelli Yussef e Isma’il, che devono misurarsi con il capovolgimento delle loro vite. Eppure in questo gioco di specchi, tra arabi e ebrei, in tanta morte e terrore e distruzione, la scrittura di Susan Abulhawa è densa di poesia, di pudore, di profondo amore, quello che dà la forza di resistere, di continuare a cercare.
Plauso, mehercules, ininterrotto, scrosciante, come rombo di tuono. Abulhava ha finalmente squarciato il velo di omertà che copriva gli eccidi del popolo palestinese da parte dello stato sionista fin dalla sua presa di potere nel 1948-1949. L’autrice narra questa lunga scia di sangue sull’arco di tre generazioni, sino al 2002, epoca della Seconda Intifada (2000-2005) e della distruzione totale del campo profughi di Jenin. A chi, come Bernard-Henry Levy, ha duramente criticato quest’opera (storicamente ben documenta) si consiglia di leggere La Rabbia del Vento (di S. Yizhar, Einaudi 2005), scritta non da un palestinese, ma da un soldato israeliano comandato di far pulizia etnica ed espropri proprio nel 1948-49. L’episodio più straziante avvenne il 16 settembre 1982, quando le falangi ebree di Sharon accerchiarono i campi profughi di Sabra e Shatila, chiamando poi la Falange Libanese a compiere il lavoro sporco. La mattanza durò 2 giorni e furono massacrati donne, vecchi e bambini, poiché i militanti OLP erano stati trasferiti in Tunisia. Nessuno si salvò, poiché le truppe ebree sulle colline impedivano la fuga di ogni essere vivente, persone tutte inermi. Col beneplacito di Ronald Reagan. Così lo stato sionista di Sharon proseguiva lo sterminio del popolo della Palestina, iniziato migliaia di anni prima dal biblico Giosuè, il proto-nazista. Nonostante la stringa di orrori raccontata in questo romanzo storico, Abulhava stende un velo di pietà e misericordia su questi eventi, estendendoli anche agli aggressori ebrei, riconoscendo il loro martirio sotto Hitler (Shoah che però gli ebrei hanno fatto pagare agli innocenti palestinesi!). Il racconto si snoda con scrittura felice e fluida ed è raccontato in prima persona da Amal, la nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, internata nel campo di Jenin. Si era salvata poiché, ancora bambina, era stata trasferita in un orfanatrofio a Gerusalemme e poi emigrata in USA. Da leggere e pubblicizzare per non dimenticare.
Negli anni ’40 Yehya Abulleja e sua moglie Bassima vivono con i figli Hassan e Darwish a ‘Ain Hod, vicino a Haifa. Yehya è proprietario di vasti campi, uliveti, frutteti, e, pur lavorando duramente, la famiglia vive con serenità e senza problemi economici. Al mercato di Gerusalemme Hassan fa amicizia con un ragazzino ebreo, Ari, fuggito con i genitori dalla Germania nazista: sarà un rapporto che durerà tutta la vita. Hassan si sposa con la beduina Dalia e hanno due figli, Yussef e Ismail. Nel 1948 gli inglesi lasciano la Palestina e l’esercito israeliano occupa il villaggio dopo un sanguinoso bombardamento. Gli abitanti devono lasciare le case e i loro beni; Darwish è ferito e resterà paralizzato, Ismail scompare, forse rapito; dopo giorni di cammino i profughi raggiungono il campo di Jenin. Non torneranno mai alle loro case. Nel 1955 nasce Amal, l’ultima figlia di Yussef: diventerà lei la voce narrante per gli orrori della guerra del ’67 e per gli anni successivi. La storia è narrata dal punto di vista degli arabi ma è certo più attendibile di quella che è raccontata, o meglio ignorata, dagli Europei. Ogni giorno la televisione giordana ricorda attraverso testimonianze gli espropri e le violenze subite dal popolo palestinese, ma in Europa non ne giunge notizia. E’ da questa prevaricazione e ingiustizia che nasce il terrorismo arabo, che non si placherà fino al riconoscimento della Palestina. E’ una storia di parte, una vicenda romanzata in cui s’intrecciano fatti storici ed elementi di fantasia, ed è difficile distinguere la realtà dall’immaginazione. Proprio per questo motivo non amo molto questo genere. Susan Abulhawa è una scrittrice americana palestinese, attivista di movimenti a favore dei rifugiati, e forse il racconto contiene elementi autobiografici, ma contrappone in modo troppo netto la vita idilliaca dei palestinesi alla ferocia degli israeliani. Alcuni elementi sono a mio avviso troppo scenografici e improbabili, come la vicenda dei due fratelli.
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