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Con uno stile impeccabile Mauvignier narra la tragica esperienza francese in Algeria e, in qualche modo, racconta tutte le guerre e le conseguenze su chi le vive. Veramente ben scritto, anche se si perde in qualche lungaggine.
Il libro di Mauvignier riprende il filo del "nouveau roman" francese mescolandolo con la tragica esperienza della guerra d'Algeria: il risultato è buono, ottimo se il libro fosse lungo una cinquantina di pagine in meno e se il virtuosismo dell'autore si fosse incanalato, nella parte dedicata alle memorie del protagonista, in una narrazione più serrata e meno sfuggente. E' comunque un libro adatto a chi voglia riappacificarsi con il semplice gusto del piacere di leggere.
Recensioni
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A un primo sguardo, l'ennesimo romanzo sulla guerra d'Algeria, sulle sue persistenti, traumatiche conseguenze: il corpo centrale del libro (non la sua parte migliore) ripercorre – con impeccabile padronanza documentaria; e con asciutta registrazione delle ragioni, e delle atrocità, di entrambi gli schieramenti – alcuni episodi bellici del 1961. L'azione si svolge nei dintorni di Orano, dipanando retrospettivamente il punto di vista di un gruppo di giovanissime reclute francesi. E non fanno difetto a Mauvignier le qualità dell'intellettuale, capace di confrontarsi con la grande storia: in particolare quando propone implicitamente di leggere come ciclico destino generazionale quello svuotamento dell'esperienza, quell'impossibilità del racconto, che Walter Benjamin, in uno dei suoi saggi più vulgati, legava al trauma delle trincee nella Grande Guerra: "Perché i vecchi dicevano non era mica Verdun, quanto ci hanno rotto i coglioni con Verdun, questa storia, questa vaccata di Verdun, quanto durerà ancora, Verdun, e poi gli altri che hanno salvato l'onore e questo e quello, mentre noi, perché io, aveva raccontato Février, vedi, io, non ho neanche provato a raccontare". O quando offre al radicato razzismo spontaneo della Francia (non solo) rurale una spiegazione (non una giustificazione) di lampante evidenza – quasi, lacanianamente, lettera rubata, nell'odierno dibattito pubblico: "Signor sindaco, se la ricorda la prima volta che ha visto un arabo?". Domanda "improvvisamente aggressiva", pensata e non detta da un reduce d'Algeria: ma il sindaco è "un po' troppo giovane" per aver preso parte alla guerra coloniale. Non è questa, tuttavia, la cifra più intima di un autore di prim'ordine, classe 1967, già noto in Italia (ai pochi) grazie all'iniziativa di un piccolo editore, Zandonai di Rovereto, che nel 2008 ha mandato in libreria La camera bianca, e nel 2009 Lontano da loro. Una cifra che si lascia cogliere in virtuosistica perfezione nel primo capitolo del nuovo libro: descrizione della festa per i sessant'anni, e per il pensionamento, di Solange, in un villaggio della campagna francese. L'azione principale del romanzo (da cui si diparte l'analessi algerina) copre meno di ventiquattr'ore; e la trama si riduce all'irruzione di un fratello della festeggiata, Bernard, il barbone: prima per offrire un regalo di valore: scandalosamente prezioso agli occhi del sospettoso perbenismo dei parenti; poi per insultare, ormai ubriaco, gli invitati, e in particolare Chefraoui, un collega arabo della sorella (qualche ora più tardi, Bernard proverà anche a usare violenza alla moglie di quest'ultimo: di qui l'intervento delle autorità). Il punto di vista è mobile, ma affidato in prevalenza al monologo interiore di Rabut, cugino di Bernard, suo commilitone e rivale in Algeria, oggi sposato, consigliere comunale: quasi suo doppio vincente (e sprezzante), ma a costo di una rimozione, che un tormentoso flusso di coscienza – dal pomeriggio della festa alla mattina successiva, in una macchina sbandata fuori strada, nella neve – s'incarica di sgretolare (perché "lui è diventato ciò che avrei dovuto diventare anch'io"). Nella capacità di farsi ventriloquo degli umori inconfessabili di un microcosmo banale (una famiglia modesta, un villaggio di campagna); di riprodurne per balenanti frammenti i più profondi borborigmi, rappresi in frasi smozzicate; di auscultare i sussulti, tragici e meschini a un tempo, di coscienze mediocri e intermittenti, ma redente dal fuoco di una ferita, Mauvignier ridà vita al meglio della lezione del nouveau roman: e l'apparente minimalismo si rovescia in epica, sia pure stravolta, del quotidiano. In sede storiografica, converrà discorrere di una funzione Faulkner-Sarraute nella narrativa francese recente – e dell'assenza di analoga linea, stilistica e conoscitiva, nella produzione italiana contemporanea: che con rare eccezioni censura ogni residuo modernista. E infatti non è mai stato tradotto un altro piccolo capolavoro (del 1991!) che con Faulkner contrae debiti lampanti: L'Enterrement di François Bon – del resto, che un autore quasi cult Oltralpe sia da noi ignorato, la dice lunga sugli orientamenti del mercato librario italiano negli ultimi due decenni. Allora è buona notizia, che un grande editore come Feltrinelli, anziché sulle trame accattivanti del global novel, punti su un romanzo dove la storia importa solo in quanto si fa sofferenza dell'espressione, strazio di "raccontarsela" per ellissi e approssimazioni all'indicibile ("forse alla lunga abbelliamo anche i ricordi che preferiremmo dimenticare e di cui non ci liberiamo, davvero mai"; e allora "li trasformiamo, ce la raccontiamo"). Ma perché affidarne la versione italiana alla stessa traduttrice di Pennac, più a suo agio nell'argot di Belleville, che nella tesa polifonia dei pronomi personali, imbricati nello stream of consciousness di Mauvigner? Fra l'altro, aveva poco senso conservare il partitivo nel titolo, come nei passi che ne danno la chiave – per esempio nei pensieri del giovane Bernard, di fronte a un'atrocità commessa dagli indipendentisti: "Che uomini sono quelli che possono fare una cosa del genere. Non sono degli uomini, quelli che fanno una cosa simile. Eppure. Degli uomini. Eppure a volte pensa che lui sarebbe un fellagha".
Pierluigi Pellini
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