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Grande libro che racconta il coraggio e la costanza dei primi colonizzatori di quelle lontane e inospitali terre, che si legge come un romanzo, suscitando rispetto e ammirazione per quei primi e coraggiosi uomini. Molto interessante è anche la descrizione della civiltà degli originari abitanti divisi in varie tribù che,ormai dopo la loro quasi totale scomparsa,rimane come storico documento.
Il libro ripercorre gli anni di Bridges vissuti nella terra del fuoco a stretto contatto con le popolazioni indigene. La memoria dell'autore è prodigiosa,tanto da riportare decine e decine di eventi di vita vissuta fin dalla più tenera infanzia. La scrittura è a volte un pò ripetitiva, i personaggi sono tantissimi e spesso è difficile ricordarseli tutti ma nonostante tutto resta un libro molto bello che aiuta a "immaginare" quei luoghi selvaggi nel quale è ambientato e fornisce un bellissimo ritratto delle popolazioni fuegine. nel finale spicca una vena malinconica per l'avanzare della civiltà e lo scippo progressivo della Terra del Fuoco ai suoi abitanti originari. Consigliato per chi ama questi luoghi e per chi magari li ha visitati e vuole ripercorrerli tramite la voce di chi li ha vissuti in prima persona
il libro è in parte interessante, anche se è un pò ripetitivo, si potevano sforbiciare almeno 200 pagine. Comunque "In Patagonia" è ben altra cosa.
Recensioni
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L'itinerario darwiniano prosegue nel 2010 (il bicentenario della morte era il 2009), almeno letterariamente: tappa fondamentale della lunga peregrinazione del giovane Darwin fu infatti la fredda, ventosissima, ortograficamente uniforme, quasi antartica Terra del Fuoco. Temi comuni sono il viaggio e l'esplorazione che spingono in là i confini della mappa: il primo capitolo di questo compendio di antichi ritmi esistenziali fuegini sunteggia, infatti, la storia darwiniana. "Nel 1826, ottantacinque anni dopo il viaggio di Anson nella Terra del Fuoco, il Beagle, vascello di Sua Maestà britannica da duecento tonnellate
". La chiamata evangelizzatrice e i prodromi dell'espansione coloniale prendono successivamente il posto della riflessione naturalistica, non prima, però, di essersi soffermati approfonditamente sugli indigeni fuegini, orrendamente spacciati per cannibali "con dovizia di dettagli in che modo i fuegini mangiavano i nemici uccisi in battaglia, precisando che, in assenza di vittime di questo tipo, divoravano le donne anziane della tribù (
) le sventurate venivano costrette a respirare fumo denso fino a quando non morivano soffocate. La carne, assicuravano, era davvero gustosa". La credenza che i fuegini fossero cannibali non fu l'unico errore in cui Darwin incappò a loro riguardo.
Il testo può essere letto come appartenente a un cospicuo filone letterario-antropologico, dove gli elementi naturalistici abbondano: dal Diario di viaggio (Journey) del naturalista inglese, ai bei libri di Hudson, alle cogenti narrazioni oniriche di Francisco Coloane (l'ispano-americanista Dario Puccini lo diffuse a noi naturalisti, ben prima che Sepúlveda lo proiettasse nell'olimpo letterario di massa, indicandolo come suo maestro).
Il testo è un'ode, una piccola bibbia, talvolta pedante, che tratteggia le vite vissute e le più intime motivazioni di una famiglia che della scelta pastorale fa obiettivo concreto e multigenerazionale. Le lande sconfinate e relativamente inesplorate di un mondo alla fine del mondo (come ebbe a chiamarle proprio Sepúlveda), in bilico tra i pericoli della frastagliata estensione geografica prossima al circolo polare (scorno dei naviganti e causa dei tanti naufragi, più o meno funesti, che punteggiano la narrazione) e quelli temporali della colonizzazione massiccia che condurrà, in ultimo, alla scomparsa di una intera cultura, sono lo tela sulla quale l'epopea assolutamente vittoriana della famiglia Bridges si dipana. Senza ombra di dubbio l'artefice principale cui tale impresa è indissolubilmente legata è il reverendo Thomas Bridges, il cui ritratto, a momenti agiografico nella sua pietà filiale, ci viene consegnato come assommante in sé la risoluta pietà del missionario, la scaltrezza del colono e la genuina curiosità dell'antropologo (doti che i suoi figli a loro volta acquisiranno per poter sopravvivere in quelle terre ostili). È lui a stabilirsi, ancora ragazzo, nelle propaggini più estreme dell'impero ancora in espansione, costruendovi la sua missione e la sua fortuna, conducendovi moglie e primogenito cui altri figli faranno seguito.
Ed è questa forse la più potente tematica che traspare dalla narrazione e che le pagine di questo diario possono solo lasciare indietro a testimonianza, redatte ancora nell'orizzonte degli eventi narrati, e che, invece, può colpire il lettore moderno, lontano dalle sensibilità dell'epoca: la risoluta pazienza, lo spirito di sacrificio, l'incrollabile determinazione che animano in particolare mogli e madri, zie, sorelle, che senza rimpianti rinunciano agli agi di una società sulla via della modernizzazione per abbracciare in toto e senza rimpianti una vita dura costellata di mille pericoli e occasioni di infelicità, in nome di quegli ideali che costituirono i pilastri su cui l'espansione britannica ha poggiato sino a tempi recenti.
Il volume è corredato da ottantatre fotografie molto belle, documenti di vita fuegina, e da una curiosa "stele di Rosetta" che chiude la serie: L'alfabeto di mio padre, basato sul sistema fonetico di Hellis, reminiscenza di prolungati e accurati tentativi di comunicazione verbale tra la famiglia Bridges e indigeni di varie fogge e latitudini; tentativi che, con tutta probabilità, costituiscono la vera fortuna dei colonizzatori, che sono in grado, sin da subito, di rendere il rapporto con le diverse tribù parte integrante della vita quotidiana, cui fa da contraltare la presuntuosa opera di conversione coatta alla salvifica fede occidentale dell'ondata successiva di missionari, presagio di lutti ancor più gravosi.
Trovano così spazio tutti i contrasti culturali, antropologico-fisici, religiosi, commistioni quasi carnali e imprinting culturale su bambini, figli di esploratori che non potranno non avere un'opacità sulla propria provenienza: servitori ma soprattutto bambinaie sono, infatti, indigene ("Trovammo una seconda devota Yekadahby cui affidare la piccola Stephanie"). C'è chi va a caccia di moglie e chi celebra cerimonie di lutto: "Le numerose vedove si erano tagliate i capelli in segno di lutto, ma se pure funerali e nozze non vennero celebrati assieme, non ci fu che un breve intervallo di tempo tra i primi e le seconde. Le donne di una banda sconfitta in una di queste cruente razzie avrebbero dimostrato ben poca saggezza se si fossero rifiutate di seguire i nuovi mariti, che avevano ancora 'il sangue negli occhi'. La paura sarebbe presto passata; le prigioniere erano corteggiate e trattate con ogni riguardo per evitare che fuggissero. In caso di maltrattamenti le donne si sottraevano ai loro rapitori alla prima occasione", una pittoresca descrizione dell'ennesima "febbre dell'oro", una malattia sociale che ha impestato tante zone del pianeta, storie di munizioni richieste anche da chi evitava l'"uomo bianco", con qualche cupa ironia sull'onestà degli indigeni Ona, ma sono soprattutto le lotte ritualizzate tra maschi a costituire documenti interessanti.
Ovviamente anche il rapporto con gli animali, imprescindibile ricchezza di ogni impresa umana, che il succitato Coloane sa rendere melodia ora gaia ora fosca, ha il suo posto nel racconto, sia che siano specie autoctone, sia che provengano dalle lontane isole natie: cani addestrati per la caccia alle lontre, le apprezzate carni del guanaco, agile e saporito quadrupede ben difficile da catturare, i commestibili leoni marini "Quando furono distribuite le razioni, il giovane visitatore ricevette la sua parte come gli altri. La assaggiò e grido con gioia: Amma sum undupa! ('È carne di leone marino!')", la paziente e diligente raccolta di molluschi d'acqua profonda e ricci di mare, dalle "dimensioni e la forma di mele schiacciate, con i duri gusci ricoperti di setole rigide come chiodi".
Questa narrazione animalesca raggiunge il suo nadir in un esilarante elogio del mulo: "Non avrei mai provato a far attraversare quel ponte (un ponticello d'assi sospeso a dei calici da recinzione) a un cavallo. E anche se fossi stato così stolto da arrischiare un simile tentativo, non avrei certo perso tempo a camminarci avanti e indietro per convincerlo che non c'erano pericoli. Se preferisco di gran lunga i cavalli ai muli, uno dei motivi è che il mulo pensa e capisce troppo per essere trasformato in un docile e obbediente schiavo dell'uomo".
Mano a mano che le pagine scorrono e la conoscenza con i nativi, la "loro" cultura e il "loro" mondo, a tratti intriso di un misticismo che le sofferte conquiste linguistiche non riescono a scalfire, si fa quotidianità, il nucleo familiare si sposta sempre più nell'entroterra, adattandosi alle esigenze ambientali e commerciali, prosperandovi sino a lasciarvi una traccia che, a distanza di un secolo, continua a perdurare, nonostante gli esploratori-evangelizzatori si spostino successivamente in Sudafrica, scelto perché nelle colonie ma soprattutto perché "Su una mappa a grande scala nella sede del Parlamento vidi una regione alla confluenza dei fiumi Devuli e Sabi. Una didascalia in rosso diceva 'inadatta a insediamenti bianchi'. Dopo essermi accertato che la condanna non era dovuta alla presenza della terribile mosca tsé tsé (
) decidemmo di costruirci la nostra futura casa, che chiamai Devuli Ranch".
Chi come noi si è aggirato nella Terra del Fuoco sa, infatti, quanto la estancia Harberton, cui è dedicato il capitolo XIV, oggi attragga i pochi e avventurosi turisti di queste aree quasi antartiche: in qualche modo, come i testi originali darwiniani, anche questo può fungere da utile guida per il viaggiatore del terzo millennio alla ricerca di emozioni naturalistiche e di sensazioni antropologiche.
Indubbio merito, infine, deve essere riconosciuto alla casa editrice, per aver saputo riscoprire e riconsegnare al pubblico un documento che rappresenta, pur con le sue molte contraddizioni, una delle ultime grandi avventure di un'epoca che ha infranto quasi tutti i confini del mondo.
Enrico Alleva e Diego De Simone
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