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Un saggio "molto saggio" (forse troppo!). L'autore compie un approfondito excursus filosofico sull'essenza della musica, sulle sensazioni che essa offre (proprio da un punto di vista sensoriale), sui veicoli per mezzo dei quali è stata e viene diffusa, sulle strade che ha percorso, ecc., infarcendo la sua analisi di diversi esempi musicali che spesso, per un ascoltatore non "onnivoro", risultano anche difficili da comprendere. Ero incuriosito dal concetto di base che io condivido: ossia che la musica come creazione originale sia in fase di inarrestabile declino (a mio parere per un fattore puramente matematico: l'impossibilità di trovare nuove combinazioni di note e quindi nuovi generi musicali). Una piccola delusione pertanto è stata la mancata analisi da parte dell'autore degli aspetti "tecnici", quali le cause della difficoltà degli autori contemporanei a creare musica, la ripetizione inevitabile di modelli del passato, o magari una cronistoria della nascita dei vari generi, e di quali situazioni storiche o tecniche (oggi mancanti) le abbiano favorite. Nulla di tutto ciò. Rimane l'impressione di trovarsi di fronte ad una (coltissima) elegia della musica del passato, che però finisce per non emendare i musicisti di oggi da quella che non può essere una loro colpa: ossia che non si può più fare una Gioconda, una Cappella Sistina o una Pietà, per il semplice motivo che qualcuno (molto bravo) ci ha semplicemente pensato prima!
Recensioni
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Utile pamphlet a futura memoria per rimarcare la brevità del secolo: dall'invenzione di Edison alle cuffiette dell'iPod, si tracciano le linee guida dell'involuzione dell'arte a sette note attraverso l'incontrollata evoluzione delle tecnologie. Ma il senso del titolo dell'ultimo libro di Gino Castaldo è spiegato alla fine della prima parte, dove la musica, questa moribonda ormai spoglia d'ogni senso, avrà forse la possibilità di redimersi se, ripartendo da un buio generatore, saprà raggiungere l'illuminazione del desiderio attraverso le fiamme del fuoco.
È un viaggio catartico che s'ha da fare e coincide con la parte più intrigante del libro, dove l'autore non tenta nemmeno di cercare una musica di questi tempi stonati, uno stile innovatore, un artista nuovo degni di recensione, perché negli ultimi vent'anni non si troverebbero nemmeno sguinzagliando i cani da tartufo. E quindi ripiega sul mito, con richiami a Orfeo e a un primordiale flauto di Pan che ci allontanano dalla soffocante piattezza dell'oggi. E ripiega altresì in una quasi-palinodia del silenzio, quale che sia, da Mozart ai Bee Gees passando per John Cage. Per ogni elemento naturale non mancano gli esempi: il fuoco, per i "Clash una vera fissazione", è Great Balls of Fire di Jerry Lee Lewis, e la notte che lo precede o lo accompagna è appunto il buio senza il quale non capiamo il Pierrot lunaire di Schoenberg e senza il quale non potremmo partecipare a una delle più note passeggiate dei Police (Walking on the Moon). Ma a parte l'interessante scavo semiologico dell'uno e dell'altro, il fuoco dovrebbe servire a oltrepassare lo stagno in cui siamo sprofondati mollemente da troppo tempo, dovrebbe bruciare quest'ammasso di plastica che ci risuona dai telefonini per tornare a cibarci di musica con il cuore aperto e al riparo, finalmente affranti, da devianti paranoie.
Se fuoco ha da essere, fidandoci della ricetta che Castaldo non indica ma fa trasparire, che siano fiamme alte davvero due metri! Ché qui la situazione è tragica, sicché se vogliamo ripartire, riavviare un ipotetico sistema musica dopo l'inghiottimento devastante del secondo Novecento, è proprio dall'unione interdipendente di buio, fuoco e desiderio che dobbiamo rialzarci. È qui che l'autore ridà un barlume di fiducia al pessimismo della sua lucida ragione e ai musicisti. Soprattutto a questi è destinato il libro: i quali, oltre a poter confutare (anche attraverso Youtube se a Castaldo non spiacerà troppo) la ricca messe esemplificativa di capolavori fornita dal testo per rifarsi l'udito (da Nina Simone a Miles Davis, da Springsteen ai Nirvana, da Robert Wyatt a De Andrè), oltre a ricordarsi (ce n'era bisogno?) che Ringo Starr è stato un grande batterista (ne sono indicati tecnicamente i motivi), nell'ispirato epilogo potranno "consolarsi" leggendo che oggi non è la loro musica a morire, ma la musica stessa, che tuttavia in un qualche metaluogo non ancora sondato da Google Earth può, perché dovrà, rinascere, dalle ceneri di un horror pleni che da troppo tempo bistratta la musica "al pari del flusso del gas da pagare con la bolletta". La redenzione non è certo dietro l'angolo, la strada è più che mai in salita.
È vero, ma Castaldo non riesce a essere pessimista fino in fondo, troppo ingenuamente innamorato del tema che tratta. E non può esserlo perché Freud alla mano se la memoria è selettiva l'inconscio prosegue il suo cammino senza scelte, e nell'inconscio di un popolo, di qualsiasi popolo, c'è anzitutto quell'arte, a detta di molti superiore a tutte le arti, che è la musica. La sua a-materialità e l'impossibilità di verbalizzarla completamente rendono quindi artificiali certe mistificazioni; non per questo è vano ripercorrere i motivi del trauma attuale, ciò che con successo l'autore si ripropone nella prima metà del suo lavoro, il cui sottotitolo suona malinconicamente Ode in morte della musica.
Carlo Pestelli
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