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Un bel libro fuori dal coro. Per capire (o almeno iniziare) qual è la posta in gioco, al di là delle facili retoriche. Non piacerà agli ambientalisti "ideologici" e piacerà a chi davvero si preoccupa della propria salute e di quella dell'ambiente.
Il programma è chiaro già dalla copertina: "… Forse è solo il nostro sguardo sul mondo a essersi deteriorato, vittima di semplificazioni antiscientifiche a cui hanno contribuito troppi intellettuali". La paura della scienza, e, segnatamente, della chimica e delle biotecnologie, si origina da distorsioni nella nostra percezione del mondo. Elenco abbreviato e semplificato: a) credere che nel passato vi sia stata una età dell'oro, persa per la cattiveria dell'uomo; b) credere che 'puro' e 'naturale' equivalgano a 'buono' e che 'chimico' e 'geneticamente modificato' equivalgano a 'cattivo'. Di chi la colpa? Non dei 'luddisti naturali', come avrebbe detto Snow, ma dei 'letterati puri', che costruiscono la loro opinione, e quella degli altri, sulla base di convinzioni basate più sul mito che su fatti reali. Chi sarebbero questi letterati? Jeremy Rifkin, Noam Chomsky e Beppe Grillo, per esempio, citati insieme e accomunati non si sa da cosa. Per il tono e lo stile, e giusto a distanza di cinquant'anni, sembra proprio di rileggere "Le due culture". L'autore ci guida in un breve ed efficace tour tra le applicazioni delle biotecnologie in agricoltura, sfatando, forse, un certo numero di falsi miti. Anche lui rischia però di cadere nella trappola della eccessiva semplificazione. Siamo sicuri che le responsabilità di un diffuso atteggiamento ostile verso le tecnologie ricadano soltanto sui letterati 'puri'? Gli addetti ai lavori sono forse senza voce? E come mai si dà spesso più retta ai letterati che ai tecnici? E su un aspetto non mi pare si sfati nessun mito, visto come si liquida alla svelta: di chi sono queste tecnologie che possono risolvere tanti problemi sia nel mondo sviluppato sia in quello in via di sviluppo? Chi ne controlla i prodotti? A che punto siamo con la regolamentazione dei brevetti sugli esseri viventi? Siamo sicuri di avere sufficienti strumenti per controllare l'operato dei monopolisti dell'alimentazione? Bel libretto, insomma: asciutto, documentato, utile. Aspettiamo solo di leggerne il seguito.
Recensioni
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Tempo fa un prestigioso intellettuale italiano ha messo l'insegnamento della scienza al tredicesimo, cioè penultimo, posto fra le priorità per la riforma della scuola (e quello della filosofia al primo). Dissentendo dalle colonne dello stesso quotidiano, un altro famoso intellettuale ha confuso i virus con i batteri. Sono cose, direbbe Antonio Pascale, che ti rovinano la giornata. Nel suo Scienza e sentimento se ne elencano parecchie, di cose che ti rovinano la giornata: le inserzioni pubblicitarie di salumi che dicono "Purezza sì chimica no"; gli elzeviri sui bei tempi andati; i "letterati puri" che commemorano il mondo succosamente naturale di ieri, al contrario di quello tristemente artificiale di oggi.
Non se ne può più: e non perché non ci sia da interrogarsi su come la chimica e la genetica abbiano trasformato il nostro modo di vivere e di alimentarci, ma per la povertà degli argomenti messi in campo. Siamo il paese europeo che investe di meno nella ricerca e nella formazione universitaria, l'ignoranza scientifica dilaga e c'è chi se ne vanta; eppure siamo sempre lì a paventare lo strapotere della techne a scapito della psiche. Quello che manca in molte riflessioni del genere, anche in quelle abbastanza sensate, è la comprensione di cosa siano davvero scienza e tecnologia: dei loro limiti e delle loro potenzialità; gli psicologi parlerebbero di mancanza di un principio di realtà. A ricostruire, con molto buon senso, alcuni elementi di realtà si dedica appunto Pascale, che fa lo scrittore ma ha una laurea in agraria, e si sente. Il suo libro è una puntigliosa rivendicazione dei meriti della scienza: documentatissima, pacata, ma anche molto agguerrita. È anche una singolare autobiografia intellettuale, la storia di come (muovendo, direbbe Darwin, "dalla convinzione opposta") Pascale si sia lasciato alle spalle l'irrazionalismo della prima giovinezza, e si sia armato di scrupolo e pazienza per attraversare la linea d'ombra della maturità. Maturità che in questo caso significa soprattutto saper leggere nei fenomeni naturali per quello che sono, senza filtri sentimentali e senza ricorrere a brutali semplificazioni.
L'hanno scritto in molti, e benissimo Michele Serra: più il mondo intorno a noi si fa complicato e più affiora un desiderio (reazionario, in senso letterale) di semplificazione. Titoli di giornali, comizi, trasmissioni radio e tv: dappertutto sembra che il sapere umano debba, e possa, essere tradotto in pillole di elementare semplicità. Invece il mondo è complesso, ed è impossibile comprenderlo se non siamo disposti a fare gli sforzi necessari: ci sono risposte semplici per tutte le domande complicate, solo che, accidenti, sono sempre sbagliate. Particolarmente sbagliate sono quelle che giocano sulla contrapposizione fra naturale e perciò amico dell'essere umano, e artificiale, cioè gravido di rischi. In pagine di grande chiarezza, Pascale illustra quanta chimica e quanta biotecnologia ci siano nell'agricoltura, anche in quella biologica. Da quando i nostri antenati neolitici hanno cominciato a produrre il cibo, tutta la frutta che mangiamo è geneticamente modificata. Si possono commettere errori; a Pascale, però, sembra assurdo sostenere che si stava meglio quando si stava peggio, cioè quando si manipolavano (come oggi) i geni delle piante ma (al contrario di oggi) a casaccio, senza sapere cosa si stava combinando. Sembra anche a me.
Insomma, è insulso rimpiangere i pomodori rossi e sugosi, che peraltro non sono mai scomparsi. Ha senso invece ragionare su se e quanto i rischi della manipolazione, chimica e genetica, prevalgano sui rischi della non-manipolazione, che non sono zero come molti credono. "I chimici di fesserie ne hanno fatte", scrive Pascale, ma se vogliamo davvero combatterne i guasti, l'unica è imparare meglio la chimica, non buttarla a mare. La difesa dell'ambiente, o anche solo della tavola su cui mangiamo, è una cosa serissima e ora anche una prospettiva di profonda trasformazione del mondo produttivo. Ma si tratta di sviluppare tecnologie controllate e sostenibili, non di tornare ai radicchi raccolti a mano, anche solo perché quei radicchi non basterebbero per sfamarci tutti quanti. Proprio perché la posta in gioco è altissima, la partita va giocata con serietà. Il catastrofismo di certo ambientalismo radicale è forse l'immagine speculare del radicale disinteresse per l'ambiente che ostenta l'attuale governo del paese. Il punto giusto dove collocarci, dice Pascale, è invece in mezzo: nel punto da cui si può entrare nel dettaglio e affrontare i problemi per quello che sono.
Alla fine della lettura, resta soprattutto impresso il tono di una voce che narra, interroga e si interroga, con profonda onestà. Se qualcuno potrà dissentire da alcune delle tesi di questo libro, non si può non essere grati all'autore per il coraggio di porsi e porci interrogativi che tanti evitano, per pigrizia intellettuale o soltanto perché la moda è un'altra.
Guido Barbujani
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