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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2008
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"Ora i critici ripetono un altro ritornello. In fondo non è un romanziere, dicono, ma un pedante che si diletta con la narrativa". Che si stia parlando di John M. Coetzee oppure del protagonista del suo ultimo romanzo Diario di un anno difficile, John C., scrittore come lui, e anch'egli nato in Sudafrica ed emigrato in Australia, non fa molta differenza. La sfida, però, è proprio questa: almeno in superficie, derogare da ogni bon ton narrativo, da ogni regola che invita l'autore a nascondere il proprio io sotto la maschera di una "persona" meno identificabile, a mettersi da parte sempre e comunque. Qui, non soltanto il dato autobiografico è ingombrante, ma si triplica in una costruzione narrativa smaccatamente artificiosa, sotto certi aspetti pedantesca, appunto, dove si incrociano tre scritture che dividono anche dal punto di vista grafico la pagina del testo.
Nel primo livello leggiamo le Opinioni forti, discorsi di attualità, cultura, politica, che nella seconda parte del libro proseguono in opinioni definite "moderate" "tenere", si dirà. Nel secondo e nel terzo livello abbiamo invece una storia, sdoppiata secondo le due diverse prospettive dei protagonisti: il diario dello scrittore John racconta del suo rapporto con Anya, incontrata una tranquilla giornata primaverile in una lavanderia, "giovane donna sorprendente" come il "vestitino rosso pomodoro" che indossa e che le esalta la pelle radiosa e le forme armoniose ("un derrière talmente vicino alla perfezione da essere angelico"), a cui rivolgerà la "bieca" proposta di assumerla come segretaria e dattilografa per scrivere al computer un libro che si intitolerà, non a caso, Opinioni forti; il diario di Anya racconta le stesse vicende ma con il crudele disincanto della giovinezza e della radicale diversità che la collocano, rispetto ai pensieri di lui, su posizioni tanto stridenti quanto alla fine complementari. Anya è filippina, convive con Alan volgare promotore finanziario deciso a rubare a John tutti i soldi dopo la sua morte ed è sostanzialmente ignorante, nonostante la patina di istruzione internazionale che non le impedisce di confondere Kyoto con Tokyo, eppure si avvicina all'eccentrico scrittore soprannominato El Señor C. con una curiosità da cui prorompono strambe intuizioni e imbarazzanti domande. Non intuizioni geniali vere e proprie, ma quella naturalezza e persino banalità che servono a John per mettersi in discussione, per uscire da un ingombrante "se stesso".
I due diari finiscono così per chiosare, come improbabili note a piè di pagina, i pezzi di attualità (sull'anarchia, sulla democrazia, su Al Qaeda e il terrorismo, su Tony Blair, ma anche sulla musica, sull'autorità nel romanzo, sulla vita ultraterrena ecc.), dove trionfa il principio della necessità, divenuto un vero e proprio "stato metafisico e sovraempirico" con i suoi paradossi, le contraddizioni e le frodi. Prendiamo il brano sulle origini dello stato, oppure quello su Machiavelli: è per necessità che si deroga alla morale per non soccombere e per autoconservazione, ed è in virtù dello stesso principio che una violenza si succede a un'altra per fare piazza pulita della precedente e fondare oppure rifondare uno stato. Anche quando la libertà dell'individuo sembra esprimersi in essa, la necessità diventa un cappio di contraddizioni che lo soffoca in quelle che gli appaiono le sue stesse conquiste. Un alibi celato dietro le apparenze dell'intelligenza. La cultura politica moderna si dibatte in un "dualismo" di valori assoluti e relativi divenuti intercambiabili a seconda, appunto, della necessità. E all'ipocrisia del linguaggio corrente è affidato l'arduo compito di plasmarla alle circostanze, di presentarla come l'unica possibilità di scelta. Ad esempio, per quanto si riconosca che la tortura sia un male, alcuni arrivano a riconoscerla come necessaria. "Altri addirittura arrivano a sostenere che potrebbe essere necessario fare del male per ottenere un bene maggiore".
Coetzee ovvero il suo alter ego John C. dimostra che da queste contraddizioni oggi non si esce. Ma lo scrittore non si ferma qui. Come a volerci dire che non solo siamo imprigionati in queste trappole della società, ma anche in quelle della vita individuale, della vecchiaia, della ricerca di felicità, della morte. Nella finzione, John è uno dei sei uomini illustri ai quali è stato chiesto di esprimere le loro opinioni forti. "Eccoci qua, sei éminences grises che si sono arrampicate con le unghie e coi denti fino alla cima, e adesso che ci siamo arrivati che cosa abbiamo scoperto? Di essere troppo vecchi e infermi per goderci i meritati frutti del nostro trionfo". Tra le sei "eminenze grigie", El Señor C. decide di raccontare con ironia una storia capace di contaminare l'autorevolezza della propria opinione con le meschinità inconfessabili della vecchiaia, con tutte le miserie di un desiderio insoddisfatto, le paure del ridicolo e le brutture, qui volutamente accentuate e portate all'eccesso, ma capaci di trasfigurarsi nelle manifestazioni d'amore più acceso o nel più commuovente sogno di morte.
Se i pezzi di attualità danno quindi spessore a una storia che di per sé sarebbe incompleta e inconsistente, la finzione incide a sua volta sulle opinioni, le stimola a guardarsi da punti di vista differenti, a smorzarsi, senza pretese di forza o di verità, e infine a trasformarsi in riflessioni più distese e ironiche, ma non meno illuminanti (il bacio, la compassione, la noia, l'acqua e il fuoco). Frattanto, in questa seconda parte, il diario di John lascia spazio a una lettera di Anya, mentre il diario di lei è sostituito alla feroce accusa in cui Alan, geloso e ubriaco, vuota il sacco su John.
Per molti aspetti, questo libro può risultare "sgradevole" come la maschera del vecchio innamorato che indossa John, ma anche rivelatore come il volto del Sileno. Perché le discontinuità e gli stridenti accostamenti di linguaggi difficilmente amalgamabili si ricompongono nel delineare l'umanità da una molteplicità di prospettive che nel complesso superano sia i confini di una società malata mortalmente, sia lo spazio ristretto di una questione privata trascritta "a piè di pagina". Macerie, demoni o mostri, costantemente interrogati in tutti i romanzi di Coetzee con frustrazione e delusione per personaggio e lettore, letteratura e amore (entrambi da intendersi nel senso più ampio possibile), possono produrre davvero poco, ma pare che siano tutto ciò per cui vale la pena di vivere.
In L'uomo come fine Alberto Moravia scriveva che in un mondo "antiumanistico" come il nostro, dove ciascuno è ridotto dalla logica del profitto e del benessere a essere "oggetto tra gli oggetti", c'è particolarmente bisogno di un nuovo "umanesimo", che vada al di là di quello tradizionale, statico e conservatore, ed elabori una nuova immagine dell'essere umano, della sua funzione comunicativa e del suo ruolo nella società e nel mondo, capace di trarre dalla cultura non un principio di anacronistica e presuntuosa centralità, ma di dubbio e di dignità al tempo stesso. In questo senso, per Moravia come per Coetzee, lo scrittore deve dire "verità scomode". In Diario di un anno difficile che non è un romanzo né un saggio, ma ha una struttura credo mai sperimentata tutto è scomodo. È anche difficile leggerlo. Si può seguire la scrittura in orizzontale, oppure in verticale; gli occhi si incrociano e si è costretti a leggerlo e a rileggerlo. Molte volte. Ma poi forse ci si convincerà che la sfida è riuscita. E verrà voglia di rileggerlo ancora. Chiara Lombardi
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