Encomiabile questo volume ideato da Mario Lavagetto e con una bella introduzione che accompagna le tappe evolutive dei casi clinici di Freud, qui riuniti secondo un criterio innovativo. Illuminante è anche la scelta di iniziare la raccolta con una lettera di Freud alla moglie che descrive con incalzante intensità gli eventi che hanno portato al suicidio di un collega, la cui tragica morte "reclama espressamente il poeta che lo serbi nel ricordo degli uomini". Tuttavia, l'idea che la psicoanalisi abbia molto da imparare dalla letteratura corrisponde soprattutto al primo Freud. Già in Il delirio e i sogni della Gradiva, che tratta come un caso clinico il mediocre romanzo di Jensen, il Freud più maturo sostiene che scrittore e psicoanalista lavorano sullo stesso oggetto con metodi diversi, arrivando a uguale risultato: il poeta ricava dal suo inconscio il contenuto che invece gli analisti apprendono dagli altri. Nel 1909, dai verbali di una riunione del gruppo dei suoi fedelissimi dedicata all'arte, nell'intervento di Freud trapela una certa vis polemica verso chi porta in scena con crudezza i problemi della psiche, di cui invece sono tenuti a occuparsi gli psicologi. "L'arte del poeta afferma − consiste dunque essenzialmente nella velatura. Ciò che è inconscio non deve, direttamente, essere reso conscio". La conclusione è perentoria: "Abbiamo il diritto di analizzare un'opera poetica, ma il poeta non ha diritto di fare poesia con le nostre analisi". Un concetto valido per le opere letterarie scadenti, ma difficilmente sostenibile per scrittori della qualità di Hofmannsthal, Schnitzler o Zweig nei cui scritti è difficile distinguere quanto pesi la conoscenza in atto delle teorie psicoanalitiche o la propria ricerca interiore. Come propone Lavagetto, Freud che in partenza condivideva pienamente i dettami della poetica di Aristotele, si trova con il tempo a fare i conti con una realtà complessa che gli si palesa direttamente nell'esperienza clinica, fino a dover modificare il suo ideale estetico e affermare nel saggio L'uomo Mosè e la religione monoteista che "il verosimile non necessariamente è il vero, e che la verità non sempre è verosimile". Viene da pensare che il sovvertimento delle sue certezze sia dovuto all'intuizione sempre più evidente che, al di là della dimensione onirica, l'inconscio che trapela negli atti e nelle parole possiede una logica sovversiva rispetto a quella aristotelica della coscienza. Questo inconscio non rimosso a cui Freud accenna nel saggio sulla Gradiva ("Tutto ciò che è rimosso è inconscio; ma di tutto ciò che è inconscio non possiamo affermare che sia rimosso") è il vero protagonista dissimulato che sempre più si presenta come terzo incomodo nelle sue narrazioni, quasi un ulteriore personaggio che ne modula i contenuti e ne decide il corso. Nei primi racconti, sono le figure femminili a essere in primo piano: giovani donne che provengono per lo più dal suo stesso ambiente ebraico e borghese e che esprimono attraverso i sintomi gli esiti di traumi e di frustrazioni di ogni genere. È il loro corpo che parla, e la posizione di Freud è quella di un confessore benevolo ma intransigente che si serve dell'ipnosi come di un grimaldello per estorcere i loro segreti: in genere storie di rapporti incestuosi e amori comunque proibiti. Eppure sono le stesse pazienti a decretare − forse aiutate dalla scarsa perizia dell'ipnotista − la fine di un intervento autoritario basato sulla suggestione, e già la narrazione relativa a Elisabeth von R si arricchisce, grazie anche al suo attivo contributo, di osservazioni sulla relazione fra sintomi isterici e simbolizzazione linguistica. Ma è con l'arrivo di Dora, un'adolescente probabilmente anoressica, che l'inconscio entra direttamente in scena, rovesciando ogni certezza acquisita: il transfert sulla sua persona spiazza Freud al punto da fargli perdere la lucidità abituale. Sono queste le prime avvisaglie di una tempesta emotiva che, investendo la persona dell'analista tanto quanto quella dell'analizzato, segna anche l'inizio di un diverso percorso narrativo da parte sua. Nel racconto clinico successivo, l'uomo dei topi lo incalza e travolge con l'irruenza di un odio esplosivo finalmente portato alla luce, e si sente che la stanza d'analisi diventa "la palestra" in cui i vissuti emotivi possono prendere forma ed espressione. Non è ancora una vera e propria condivisione, e lo si intuisce nel resoconto sull'uomo dei lupi, dove l'insistenza di Freud sulla scena primaria risponde a un'ansia conoscitiva che non sa aspettare realmente l'emersione dei contenuti prescelti dall'analizzato. Eppure, proprio attraverso il resoconto del suo percorso per prove ed errori ancora oggi ci inchiniamo di fronte alla bellezza di quelle che in una lettera a Jung aveva definito "le grandi opere d'arte della natura psichica". Alessandra Ginzburg
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