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"[...] La gente si lamenta sempre delle cose brutte che gli capitano senza che se le sia meritate ma non parla mai delle cose belle. Di cosa ha fatto per meritarle. Io non ricordo di aver mai dato a nostro Signore motivi particolari per sorridermi. Però lui mi ha sorriso" (tratto pag. 74). "[...] E non ho mai avuto dubbi su quello che dovevo fare nella vita. Al giorno d'oggi se ti metti a fare discorsi su cos'è giusto e cos'è sbagliato la gente spesso e volentieri si mette a ridere. Ma io su certe cose non ho mai avuto tanti dubbi. Nelle mie idee su certe cose. E spero di non averne mai [...]" (pag. 129). "[...] i guai cominciano quando si inizia a passare sopra alla maleducazione. Quando non si sente più dire Grazie e Per favore, vuol dire che la fine è vicina [...]" (pag. 247). Sono tante le frasi come queste che McCarthy ci regala in questo romanzo e la loro bellezza risiede nel fatto che hanno un sapore di altri tempi e, come l'acciaio di Toledo, penetrano la corazza del politicamente corretto che possiede ogni lettore assuefatto alle tendenze dominanti (mainstream) del nostro tempo. Un romanzo che mi piace definire "reazionario", con personaggi caratterizzati sapientemente. Mi è piaciuto.
A mio avviso un grandissimo libro, il cui finale è perfettamente in linea, anche se paradossalmente cambia completamente scenario, stile e tono, con quanto narrato fino allora, ma del resto "dopo che tutte le bugie sono state dette e dimenticate,la verità sta ancora lì.Non va da nessuna parte e non cambia da un momento all'altro.Non si può corrompere,cosi come non si può salare il sale.Non si può corrompere perchè è quella che è". e la verità nuda e cruda non manca mai fino all'ultima parola del libro. E' però vero che lascia l'amaro in bocca nel punto in cui si accenna alla Barracuda col vetro insanguinato e al suo proprietario. E' Cornich a guidarla? è sempre lui il testimone sull'auto della polizia? è stato davvero il messicano? non lo sapremo mai. questo mi rode, ma va accettato. La sola verità, che conta, è che Moss è morto. accettiamola...come fa Bell.
Anche il personaggio John Wayne nei suoi ultimi western riferendosi alle nuove generazioni e ai cambiamenti del suo mondo si lasciava andare a battutaccie critiche... Ripeto roba vecchia ben confezionata
Recensioni
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è dalla metà degli anni sessanta – il suo primo libro Il guardiano del frutteto (Einaudi 2002) è del 1965 – che Cormac McCarthy ci parla dell'America dei suoi miti e delle sue angosce. Lo fa scegliendo un punto di vista particolare quello del genere western ma trasfigurandolo fino a mutare il sogno della frontiera in un incubo dalle tinte foschissime. La lente attraverso cui guardare le vicende di una nazione e delle persone che ne fanno parte non viene quindi puntata su Hollywood il crollo di Wall Street o Pearl Harbor ma su pianure desolate praterie e deserti città fantasma luoghi di frontiera che diventano puntualmente terre di nessuno desolato teatro di una scena primaria sanguinaria e ancestrale. In Meridiano di sangue (Einaudi 1996) e nei romanzi della Trilogia della frontiera (Cavalli selvaggi Oltre il confine Città della pianura tutti Einaudi 1995 1996 1999) il destino manifesto del paese la sua autoattribuita missione civilizzatrice (si veda il bel saggio di Anders Stephanson: Destino manifesto Feltrinelli 2004) si svela in tutta la sua ambiguità: la libertà quella che ieri si cercava all'Ovest e che oggi si esporta in giro per il mondo è anche se non prima di tutto libertà di uccidere chi si vuole di sopraffare l'altro fino allo sterminio.
Specialmente in Meridiano di sangue McCarthy è riuscito a elevare questa condizione a un livello ulteriore all'interno di una dimensione narrativa in cui la ferocia permea ogni cosa e ogni personaggio qualunque sia la sua origine. Nelle vicissitudini dello scatenato giudice Holden e del ragazzino al suo seguito non è più una questione di bene e di male ma di uomini posseduti da un'animale preistorica paura del sangue e della morte come recita l'imprevisto esergo di Valery. La libertà su cui si è costruita l'America (e di cui il western tradizionalmente ne dava una rappresentazione pacificante e identitaria) lungi dall'essere un approdo sicuro e civilizzatore diventa sulla pagina di McCarthy il nome che si impone a una legge di natura violenta e disumana.
Da simili premesse si muove anche Non è un paese per vecchi che vent'anni dopo Meridiano di Sangue e sette da Città della pianura ci presenta un McCarthy inedito spiazzante per certi versi con un thriller ambientato nel Texas degli anni ottanta. Llewlyn Moss un reduce del Vietnam sta cacciando un'antilope nel deserto – quasi un archetipo della sua narrativa: l'essere umano è un atomo impazzito e minuscolo immerso in un paesaggio grandangolare maestoso e indifferente – quando incappa sulla scena ormai fredda di una carneficina: un regolamento di conti tra bande di narcotrafficanti. La tentazione a cui non si può resistere immancabile ingrediente di ogni thriller che si rispetti (e il romanzo di McCarthy è anche un thriller) ha qui le fattezze di una borsa con due milioni di dollari dimenticata tra i cadaveri. Moss la prende: è il suo primo errore. Il secondo errore sarà tornare sul luogo del delitto per aiutare un sopravvissuto. Peccato che nel frattempo siano tornati i cattivi per finire il lavoro e riprendersi il bottino: l'incontro ovviamente non è dei più amichevoli. Comincia così una caccia all'uomo che si protrarrà per buona parte del romanzo. Moss viene tallonato da Chigurh un killer di brutalità inaudita a tratti grottesca. Terzo vertice del triangolo è lo sceriffo Bell anche lui un reduce ma della seconda guerra mondiale: le sue considerazioni nostalgici richiami a un tempo e un paese che non sono mai esistiti interrompono una narrazione altrimenti tesissima.
Allora visto così sembra che McCarthy abbandonando i temi e la lingua abituali (il West raccontato con quell'inglese quasi barocco in cui Melville e Faulkner si mescolano alla tragica necessità del Macbeth o della Bibbia di re Giacomo) abbia cercato più la riuscita se non proprio commerciale quantomeno comunicativa. E se da una parte è senz'altro vero (Non è un paese per vecchi è un noir incalzante e allucinato emozionante e scritto in maniera superba) dall'altra la sensazione è che non si possa ridurlo a divertissement per quanto di livello.
Basti pensare all'intero impianto strutturale del romanzo: per due terzi si attiene alle regole del genere soltanto per buttarle a mare di colpo concludendo la vicenda improvvisamente e deludendo qualsiasi ulteriore aspettativa. Lo stesso titolo è indicativo: No country for old men è un verso di una poesia di W. B. Yeats (Verso Bisanzio) su un impero opulento e decadente. Ciò che cerca McCarthy allora non è il thrilling ma l'allegoria: quella del romanzo è un'America sopravvissuta a se stessa popolata di reduci di avanzi di una guerra che sembra eterna.
Quando ancora una volta Chigurh si volatilizza a Bell non resta che raccogliere i cocci (e i cadaveri) lungo una frontiera ormai svuotata di ogni ideale. Lo sceriffo fino a questo punto inconcludente portavoce dell'America profonda può solo abbandonare le illusioni intorno a un mitico passato perbene e ammettere sconsolato: La gente dice che è stato il Vietnam a mettere in ginocchio questo paese. Ma io non ci ho mai creduto. Questo paese era già messo male. Non avevamo niente da dare a quei ragazzi da portarsi dietro. Non si può andare in guerra in quel modo. Non si può andare in guerra senza Dio. Io non so cosa succederà quando arriverà la prossima. Non lo so proprio. Neppure noi lo sappiamo ma intanto la prossima guerra è già qui.
Francesco Guglieri e Roberto Canella
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