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Nel panorama della vasta letteratura su Enrico Fermi (1901-1954), Bruzzaniti privilegia due prospettive; due capitoli sono dedicati agli "itinerari di ricerca" del fisico italiano (1921-1933 e 1934-1954), nei quali sottopone a una puntuale disamina critica i testi scientifici via via pubblicati. In altri due delinea la storia della fisica del Novecento, nel cui contesto si svolse l'attività di Fermi. In un capitolo iniziale l'autore traccia la formazione scientifica, dal giovane diciottenne già in possesso della fisica classica, al fisico che "raggiunge il vertice della sua fama" nel 1953, quando è nominato presidente dell'American Physical Society. Due parole sul sottotitolo, "genio obbediente". Fermi partecipa alla costruzione della bomba atomica e successivamente a quella della bomba H; entrambe le scoperte sollevarono grandi dibattiti fra gli scienziati. Secondo l'autore, Fermi si mantenne estraneo ai travagli etici di quegli scienziati che promossero petizioni contro l'uso delle nuove scoperte; sostenne la neutralità della scienza, nella persuasione che la scelta era un problema da lasciare ai politici.
La tesi centrale del volume è che Fermi sia stato "l'ultimo galileiano", in quanto ha usato gli strumenti più sofisticati della matematica (le "certe dimostrazioni") per comprendere i fenomeni (le "sensate esperienze"). L'eccezionalità di Fermi fisico risiede nel fatto che, unico nel panorama scientifico italiano, ha fondato il suo programma di ricerca sulle due rivoluzioni scientifiche del Novecento: la teoria della relatività e la meccanica quantistica.
Nella prima fase della sua attività, Fermi pubblica settantasette lavori; sette sperimentali, sessanta teorici e dieci di divulgazione. Di particolare rilievo risultano due soggiorni: uno nel 1923, all'Istituto Max Born di Gottinga, centro della fisica più avanzata in Europa; e un altro a Leida nel 1924, dove conosce Lorentz e Einstein. Al ritorno ottiene l'incarico di fisica matematica all'Università di Firenze, e l'anno successivo consegue la libera docenza; nel 1926 gli viene assegnata la prima cattedra italiana di fisica teorica all'Università di Roma. È intorno a questo centro di ricerca che Fermi radunerà i migliori fisici costituendo il leggendario gruppo dei "ragazzi di via Panisperna".
La pubblicazione più importante di questo periodo è quella che passerà alla storia della fisica come "la statistica di Fermi", di cui egli stesso fornì moltissime e innovative applicazioni. Così, il congresso internazionale di fisica che si tenne a Como nel 1927, "sancisce l'autorevolezza di Fermi a livello internazionale". Nella seconda fase Fermi "diventa uno dei protagonisti indiscussi della fisica nucleare", e il premio Nobel del 1938, "per la scoperta di nuove sostanze radioattive", lo pone "ai vertici della scienza mondiale". Il lavoro scientifico più innovativo di questi primi anni è la teoria del decadimento beta del 1933, che aprì un nuovo campo, la fisica delle interazioni deboli. D'allora in poi, prevale in Fermi l'interesse sperimentale su quello teorico; pubblica novantacinque articoli, cui ne vanno aggiunti altrettanti secretati durante la guerra, e il loro centro è rappresentato dalla fisica nucleare. La sua vivacità intellettuale non lo abbandonerà nemmeno dopo la realizzazione del "progetto Manhattan", entro cui svolse un ruolo decisivo, specie dopo la costruzione della "pila Fermi" nel 1942, considerata l'inizio dell'era atomica. Una vivacità che si manifesta soprattutto nell'apertura di nuove frontiere, come quelle relative alle particelle elementari, all'astrofisica, alle tecniche di calcolo.
Le ultime tre pagine del libro sono dedicate a un Epilogo: la "filosofia" di Fermi; l'autore ne rintraccia la presenza nel ruolo assegnato "agli aspetti quantitativi della conoscenza", e richiamandosi a testi che "riecheggiano tematiche di chiara natura teorica". In realtà, Fermi è stato del tutto estraneo alle grandi discussioni filosofiche sollevate dalla relatività e dalla meccanica quantistica, cui scienziati, epistemologi e filosofi parteciparono negli anni venti e trenta: è stato essenzialmente un "pragmatico", che ebbe una concezione strumentale della matematica e considerò utili le formulazioni teoriche nella misura in cui servivano a comprendere i fenomeni, da abbandonare tuttavia quando si trovava una teoria più potente.
Ho avuto modo di porre tale quesito al fisico Bruno Rossi, che partecipò al gruppo di Fermi specializzandosi nel campo dei raggi cosmici. Lo incontrai a Frascati dove si stava allestendo il sincrotrone, ed egli mi rispose che la ragione andava ricercata nella loro comune formazione liceale; i manuali di filosofia di stampo positivistico non avviavano i giovani allo studio della scienza. Inoltre, i fisici della generazione precedente che si erano formati nel clima culturale del positivismo, si erano caratterizzati per un atteggiamento agnostico o di incomprensione verso la nuova fisica. Così, quando qualcuno accennava a problemi di carattere filosofico, Fermi "lentamente si allontanava".
Un esempio per tutti. È noto che una delle discussioni epistemologiche sollevate dalla meccanica quantistica riguarda lo statuto della causalità, dopo che il pensiero scientifico ebbe a comprovare che tra macrofisica e microfisica esiste un vero e proprio salto qualitativo, e che è perciò illegittimo estrapolare dal mondo della macrofisica, di cui conosciamo le leggi causali, quelle della microfisica. Fermi in due scritti sulla fisica del nucleo atomico e su L'interpretazione del principio di causalità nella meccanica quantistica (entrambi del 1930) affronta tale problema sotto il profilo eminentemente fisico. Egli non mette in discussione la causalità, ma sottolinea il diverso significato e uso che ha nella fisica classica e in quella quantistica, e rileva che "ciò che determina la necessità di sostituire le leggi quantiche alle leggi classiche è il cambiamento di dimensione degli oggetti studiati quando si passa dalle dimensioni ordinarie alle dimensioni atomiche".
Mario Quaranta
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